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 2025  settembre 14 Domenica calendario

Ieri gli italiani internati, oggi la fabbrica di armi

Tanti anni dopo, uno dei superstiti racconterà così il 24 febbraio 1945 degli eroi di Unterlüss. Quel che successe nel cortile di una caserma dell’aviazione tedesca, dieci metri per dieci cintato da alte mura, dove erano stati radunati duecento ufficiali italiani prigionieri dei nazisti. «Non dimenticherò mai la faccia che hanno fatto i tedeschi, dopo che noi 44 ci siamo offerti al posto dei 21 prescelti per la decimazione. Erano impietriti, esterrefatti. Non riuscivano a capire perché facevamo una cosa del genere. Ma noi lo sapevamo bene: era l’indignazione per tutto quello che stavamo subendo a darci il coraggio di ribellarci. Fino alle estreme conseguenze. L’indignazione, del resto, sarà per tutta la prigionia, per i 19 mesi tra i reticolati dei Lager nazisti, da Deblin a Wietzendorf fino al KZ di Unterlüss, il motore delle mie decisioni». Si chiamava Vittorio Bellini, era sottotenente.
Se negli ultimi anni questa vicenda è emersa, si deve in gran parte a un giornalista piemontese, Andrea Parodi, che con Il coraggio dell’indignazione (Bollati Boringhieri, uscito a inizio anno e nella cinquina dei finalisti del premio Acqui Storia) ha indagato la storia fino in fondo. Tra i 44 c’era anche un suo prozio, Carlo Grieco. Ma in famiglia non ne parlò mai. Si sapeva solo che era stato nel Lager: e nella mente infantile di Andrea Parodi questo significava che quell’amatissimo, singolare prozio doveva per forza essere ebreo. Non lo era: era invece uno dei 600 mila militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 e mandati nei Lager: gli internati militari italiani o Imi che per i due anni successivi si rifiutarono di arruolarsi con i nazifascisti, tra le forze di Salò. Che resistettero in condizioni durissime, e dissero «no».
Più tardi, due fatti misero Parodi sulle tracce giuste. Si fece vivo un ex compagno di detenzione dello zio ormai deceduto, e inviò le sue memorie. E molti anni dopo – era il 2015, quando già aveva rintracciato molti protagonisti – lo aiutò Michele Montàgano. Quel molisano di ferro che morirà nel 2024 a 102 anni, onorato dal presidente Sergio Mattarella (che in novembre sarà in Germania, e pronuncerà un discorso al Bundestag) come Cavaliere della Gran Croce, memoria storica degli Imi e uno dei 44 di Unterlüss, si presentò da Parodi e gli regalò il suo archivio. Scritti, diari, lettere, quanto aveva raccolto dai compagni su quell’esperienza. «Adesso – gli disse – hai tutto tu. Devi fare quello che sai. Completare quello che non siamo riusciti a fare noi, e raccontare la nostra storia». E così è stato.
Perché zio Carlo non parlò? E perché così tanti dei 600 mila internati militari che non «optarono», ma rifiutarono tutte le offerte di Hitler di andare a combattere contro altri italiani (un numero enorme, perché erano 2 milioni gli italiani sotto le armi nel 1943), tacquero perfino in famiglia su quel che avevano sofferto nei campi tedeschi?
Certo, degli Imi qualcosa si scrisse. Ce ne furono di famosi: Giovanni Guareschi, l’autore di Don Camillo, nel suo diario ha raccontato come negli Oflag – i Lager degli ufficiali – fu coltivata la volontà di non abbrutirsi: si inventarono giornali orali, si tenevano lezioni universitarie tra prigionieri, fu per quella gioventù cresciuta sotto Mussolini, finalmente libera di pensare, una prima scuola di democrazia. Fu un internato militare, Alessandro Natta, poi segretario del Partito comunista italiano dopo la morte di Enrico Berlinguer, che nel 1997 pubblicò per Einaudi L’altra Resistenza. La chiamò, appunto, Resistenza.
Eppure, si è dovuto attendere ottant’anni, perché il 20 settembre 2025 – tra qualche giorno – venisse reso loro omaggio con una giornata dedicata: per una volta, il Parlamento italiano l’ha votata in modo unanime. Forse la spiegazione di questo oblio è nelle celebri parole di Primo Levi: «I nazisti lo avevano previsto. Se mai ci sarà un reduce, qualunque cosa racconterà, nessuno vorrà credergli»; e per questo, sosteneva, «se comprendere è impossibile, conoscere e ricordare è il compito di ognuno di noi». È l’invincibile paura della vittima a raccontare sapendo che non sarà creduta. L’altra spiegazione – che ci riguarda collettivamente – ha a che fare con il modo in cui abbiamo costruito la nostra memoria nazionale. E per gli Imi, non utili né alla Dc né alla sinistra né alle destre, non si trovò spazio.
È singolare che questa storia nobile conduca proprio a Unterlüss. E si incroci con il presente tedesco. Perché «Unterlüss è Rheinmetall» e viceversa dal 1899, come dicono qui. Industria bellica un tempo, il centro del riarmo tedesco oggi.
Un paesone di 3.800 anime nella Bassa Sassonia disposto lungo uno stradone, tagliato in diagonale da Rheinmetallstrasse, con boschi tutt’intorno. Neppure un ristorante, ma solo il Grill-kebab Istanbul di fronte alla stazione. Tutti o quasi i suoi abitanti lavorano lì. In paese si pensa da sempre – come ha scritto l’azienda all’inizio della guerra in Ucraina – che la «pace purtroppo non è la condizione naturale dell’umanità». Qui una settimana fa è stata inaugurata la più grande fabbrica di munizioni d’artiglieria d’Europa: produrrà 350 mila pezzi all’anno. Per l’occasione sono arrivati il segretario generale della Nato, Mark Rutte, il vicecancelliere Lars Klingbeil e il ministro della Difesa Boris Pistorius, ambasciatori, generali, dignitari stranieri. È in questa brughiera sabbiosa del Luneburgo, che tra poche settimane sarà coperta di erica rosa, piena di umidità e di nebbia e di gelo d’inverno – come la videro i detenuti dei 21 lager situati nella regione intorno – che l’Europa prepara la prima linea della sua difesa.
Oggi c’è un campo di calcio al posto del Lager più feroce, quello dove finirono per punizione gli eroi di Unterlüss. Dal quale uscivano di giorno per andare al lavoro coatto da Rheinmetall o nel bosco, a trascinare alberi «legati al tronco come Gesù Cristo».
Che cosa sa Unterlüss del suo passato? «Qualcosa è stato fatto, ma soprattutto in anni recenti», risponde Hendrik Altmann, storico dilettante. È lui ad aver geolocalizzato molti Lager e baracche militari – compreso quello sul campo di calcio – come un archeologo del nazismo. Quando nel 2022 si è saputa la storia degli italiani, racconta, è stato loro eretto un piccolo monumento: il primo. Ha pagato Rheinmetall. Il ceo Armin Papperger, nemico giurato di Vladimir Putin che avrebbe anche tramato per ucciderlo, ha detto che l’azienda si prende tutta la responsabilità del suo passato. Ma indagini specifiche ne sono state fatte poche, pare che fino al 2000 proprio nessuna. E se la condanna del nazismo qui come altrove in Germania è totale, non sfugge una piccola contraddizione. In questo paesone – dove la Germania dovrà reinventarsi, dimostrare al mondo come ci si riarma in modo pacifico, democratico, a difesa di sé e degli europei – proprio qui si è preferito non scavare tanto nel genius loci. O in quel che hanno fatto i suoi abitanti.
E allora, torniamo ai nostri 44 eroi di Unterlüss. Il 20 settembre 1944 perdono l’ultima protezione. Quel giorno, segnato dall’attentato fallito di Claus von Stauffenberg a Hitler, Mussolini incontrò il Führer nella Tana del Lupo distrutta. E «vendette» gli internati italiani, gli Imi, ai nazisti: furono privati delle stellette e del rango militare. Ridotti a «civili», a normali prigionieri, potevano diventare forza lavoro per le fabbriche del Reich. «Schiavi di Hitler», per usare una celebre definizione.
Quell’inverno già si percepiva il crollo tedesco, il Reich era allo stremo. I nazisti forzarono allora anche gli ufficiali, non solo i soldati, allo Zwangarbeit. E quel gruppo dei 200 italiani graduati – che appellandosi alla convenzione di Ginevra si era sempre rifiutato di lavorare per la macchina tedesca – incrociò le braccia. Scioperò per sei giorni.
La Gestapo reagì furiosamente. Ordinò la decimazione dimostrativa: e quando da quella schiera uscirono 44 volontari che si sostituirono ai prescelti alla fucilazione, la punizione fu l’Ael di Unterlüss, il feroce campo di rieducazione. Un girone sordido nell’inferno nazista. Gli ufficiali italiani non incontrarono solo i kapò, le mazzate, il lavoro coatto. Ma videro anche l’abiezione più profonda: gli altri detenuti ridotti a larve da fame, pidocchi, frustate; prigionieri che come bestie lottavano per il cibo gli uni contro agli altri pur di sopravvivere. Si chiedevano, dopo avere preservato per tanto tempo la dignità, se sarebbero diventati larve anche loro.
In 6 settimane tre di loro morirono. Altri erano allo stremo. E chissà se del piccolo gruppo si sarebbe salvato qualcuno, non fosse che il 6 aprile 1945 vennero liberati, perché stavano arrivando gli anglo-americani.
«Dunque è finita», scisse uno di loro, Antonio Rossi. «Non ho un moto in me, non un sentimento. Con voce stanca e indifferente osservo solo che finalmente potremmo fumare». Pesava 44 chili. Ci mise dieci giorni prima di piangere.
Nei diari, nelle lettere dei sopravvissuti non c’è pentimento per quella scelta d’essersi offerti volontari per l’esecuzione, come se fosse un atto d’onore dovuto. Michele Montàgano, la memoria storica morto centoduenne, ripeteva che la vera difficoltà era stata un’altra. Non «optare», resistere alle pressioni. «Per tutta la prigionia noi non abbiamo lottato solo contro i tedeschi. Abbiamo combattuto contro noi stessi, la nostra coscienza».