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 2025  settembre 19 Venerdì calendario

Dopo dieci anni, chi si ricorda ancora dell’Agenda Onu 2030?

Nel rapido volgere di un decennio, gli ambiziosi propositi del riformismo democratico sono naufragati. Chi si ricorda più della solenne Assemblea dell’Onu che il 25 settembre 2015 approvava l’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile? Le figurine colorate dei 17 Sustainable Development Goals (SDGs) invasero il mondo, la stampa e le televisioni, i programmi scolastici e i siti governativi portando il loro messaggio di riscossa e di speranza: “Un futuro migliore e più sostenibile per tutti”. Un mondo di pace e di cooperazione sembrava essere a portata dell’umanità. Eradicazione della povertà e della fame, equo accesso alle risorse naturali, alla salute e all’istruzione di qualità, parità di genere, lotta al cambiamento climatico e al degrado della natura. Tutto ciò grazie alla determinazione degli Stati e delle imprese multinazionali impegnati in un gigantesco Reset Kapitalism, teorizzato a Davos e incoraggiato finanche dai custodi del capitale finanziario.
Due mesi prima era stata emanata l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco e, poco dopo, il 12 dicembre, a Parigi si sarebbe firmato l’Accordo per la riduzione delle emissioni dei gas serra nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). In Europa l’onda degli SDGs portarono al Green Deal e alla Next Generation Eu nel primo mandato di Von der Leyen. Poi sono arrivati: Trump (il ritiro degli Usa dall’Accordo di Parigi è avvenuto la prima volta nel 2020), la pandemia Covid del 2019, la guerra in Ucraina, l’avanzata delle destre revansciste e sovraniste e il più generale disfacimento della cooperazione interstatale.
Si sono così perdute le tracce dei 17 obiettivi, dei 169 sotto-obbiettivi e dei 240 indicatori da raggiungere entro il 2030. Le ultime informazioni pervenute dall’Onu sono quelle di uno sconsolato Segretario generale, Antònio Guterres: solo il 17% degli obiettivi degli SDGs è in linea con le previsioni, mentre 23 milioni di persone in più rimangono in uno stato di estrema povertà; 100 milioni in più soffrono la fame; 120 milioni sono gli sfollati per le guerre. Aggiungiamoci Gaza. L’Istat nel suo rapporto annuale afferma che “lo scenario più probabile nei prossimi cinque anni è il fallimento su larga scala degli SDGs”. Non potrebbe essere diversamente, del resto. Le priorità dei governi nell’arco di pochi anni sono cambiate e l’interesse si è spostato sulla “sicurezza” da raggiungere non con la giustizia e la prosperità, ma con la deterrenza armata e la “prontezza” dell’intervento militare (come stabilito dal piano ReArm Eu approvato dal Parlamento europeo).
Abbiamo provato a fare uno schemino semplice per capire la dimensione del problema. Con i denari già spesi in armamenti e militari nel 2023 si sarebbero potuti raggiungere i primi principali Obiettivi dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile dell’Onu. La lotta alla povertà necessiterebbe di un fabbisogno finanziario di 1.500 miliardi di dollari all’anno più 300 per la fame, 114 per l’acqua, 370 per la salute, 200 per l’istruzione. Aggiungiamoci 1.500 miliardi per il clima. Arriveremo così a 2.984. Per contro le spese militari lo scorso anno hanno già raggiunto 2.700 miliardi. Cifra destinata a crescere ancora di molto se la Nato riuscirà a imporre agli Stati membri una spesa militare pari al 5% del Pil.

Sarebbe davvero utile aprire un confronto pubblico sulle ragioni del fallimento dell’Agenda 2030 e della pace nel mondo.