La Stampa, 19 settembre 2025
Senza neanche un soldo in tasca ho girato l’Europa
Articolo uscito su L’Avanti il 3 febbraio 1948
Uno può girare tutto il Belgio senza spendere un soldo. Basta mettersi sulla strada e far segno ai camions, col pollice. Quasi tutti si fermano. Poi io ho detto che volevo andare ad Anversa e lui m’ha detto di salire. Era un grosso camion verniciato di rosso e vuoto, sembrava. Invece dentro c’erano quattro uomini e una ragazza, sdraiati, perché la polizia stradale non li vedesse. Mi hanno detto che è proibito viaggiare così, concorrenza alle ferrovie dello Stato credo, e allora mi sono allungato anch’io vicino agli altri e tutti siamo rimasti a guardare il cielo, finché il camion si è fermato alla periferia di Anversa e io ho buttato fuori la valigia e sono sceso. Ho chiesto subito dov’era il porto. «Che porto?», ha detto la guardia. È risultato che non si trattava di Anversa, ma di un’altra città, chiamata Malines. Pare che ci facciano i pizzi. Io l’ho attraversata da un capo all’altro e alla fine mi sono appostato sullo stradone di Anversa, davanti a una drogheria. Facevo segno anche alle automobili, ma quelle non si fermano mai. Più sono lunghe, larghe, nuove e lucide che sembrano scarpe, meno si fermano. È stata una vecchia trappola, di quelle con ancora i portafiori finti e il pupazzo appeso in alto, a caricarmi. C’era solo l’autista in livrea e io ho fatto un inchino alle dieci persone che mi stavano a guardare da mezz’ora scommettendo tra loro se sarei riuscito o no a trovare un passaggio, sono salito, mi sono sdraiato sul sedile posteriore, r verso sera ero ad Anversa. Ad Anversa c’era lo sciopero degli scaricatori, l’incendio e il mare, io credevo. E prima di tutto c’era il Verbo. Il Verbo fiammingo, voglio dire. Il fiammingo è una di quelle lingue che appena le sentite vi rendete conto immediatamente che non imparerete mai. In teoria dovrebbe ricordare l’olandese, o il tedesco, o anche l’inglese, ma quando io ho chiesto a un tipo dove fosse la stazione m’è sembrato soprattutto di aver a che fare con una motocicletta che non riesce a partire perché ha le candele sporche. Due quinti del popolo belga parla questa lingua soltanto, e due quinti soltanto quella francese. Che non si capissero tra compatrioti era una cosa che non m’interessava, fintanto che mi riusciva di trovare un belga appartenente a quell’ultimo quinto, quello, cioè, che parla indifferentemente il fiammingo coll’accento, francese e francese coll’accento fiammingo. Quando l’ho trovato non l’ho lasciato più, fino alla stazione. È lì che ho depositato la valigia (si paga al momento di ritirarla) e poi me ne sono andato verso il porto. Era notte e io ho preso per un boulevard gonfio di luca, grandi caffè e cinematografi e vetrine e alberghi e réclames al neon a destra e a sinistra. Non so bene perché, ma sul momento m’è venuto in mente un commendatore/commentatore/commendatore grasso che si allenta la cinghia dopo mangiato. Invece c’era poi una via obliqua, silenziosa, e al fondo, improvvisamente, l’incendio. Era una casa a tre piani e davanti un gran spiazzo era vuoto e lucido d’acqua e intorno stavano tanti pompieri con l’elmetto di carta di cioccolatini. Ma era quasi finito, mentre lo sciopero era appena cominciato. Me l’ha detto uno che guardava anche lui il fumo uscire dalle finestre della casa, bianchissimo, per via dell’acqua delle pompe. Era un uomo biondo e piccolo, con l’aria risoluta, meno quando rideva. E poi era polacco. Mi ha detto che aveva un nome troppo complicato da pronunziare e che lo potevo chiamare Lik. Era il nome, m’ha detto, di un suo cane. Ad Anversa c’era arrivato al mattino, anche lui per trovare lavoro al porto. Prima lavorava in un circo equestre, ma poi se n’era andato perché lo pagavano male. E anche gli scaricatori li pagavano male. Per questo facevano sciopero. Io avevo in tutto sessanta centesimi e Lik quasi due franchi, ma non potevamo mica metterci a fare i crumiri. Soprattutto perché è appunto gente così, come Lik e me, che cercano in quelle occasioni, gente che non sa come mangiare e dove dormire, gente disperata, gente che non è più in grado di scegliere, che accetta qualsiasi condizione. «Non dobbiamo dargliela vinta – ha detto Lik: – loro vorrebbero approfittarne, credono di comprarci con un pezzo di pane, ma noi teniamo duro». Si montava, per consolarsi; parlava come se tutti gli armatori del porto fossero in ginocchio davanti a noi, a pregarci di lavorare. «E poi – ha detto – uno che si vuole impiccare, la corda finisce sempre per trovarla». Così abbiamo cominciato a cercare la corda insieme. Eravamo tutti e due nelle stesse condizioni, tutti e due stranieri e senza carta di lavoro. In Belgio, come dappertutto, del resto, se non avete la carta non c’è niente da fare. È la prima cosa che vi chiedono. Non è che di posti non ce ne fossero, o che non avessero bisogno di manodopera, o che non si fidassero di stranieri. Solo, non volevano aver grane con la polizia. Abbiamo cercato negli alberghi, nei bar, nelle officine, nei garages: ogni volta ci chiudevano la porta in faccia. Allora ci sedevamo su una panchina, istupiditi, a guardare le automobili americane enormi, che passano senza quasi rumore. Tutta la città, tutto il Belgio è pieno di automobili americane, e poi bibite americane, réclames americane, maccheroni, sigarette, scatole, stilografiche, abiti, scarpe, magazzini americani. È l’unico paese d’Europa che verso gli Stati Uniti non abbia debiti, ma crediti. Dicono che sia per via dell’uranio che c’è nel Congo, colonia della quale, durante la guerra, si sono occupati gli americani, tanto che adesso, dicono, si chiama Congo Belga solo più sulla carta geografica. In cambio voi potete bere il Coca Cola a Bruxelles e mangiare i Corn Flakes a Gand, se avete soldi. Se no, ve ne state a sedere sulle panchine di Anversa in attesa di una donna di mezz’età, con la sporta piena, che abbia l’aria di capire il francese. Perché alla fine avevamo dovuto ricorrere a questo, per mangiare. Abbordare una donna, e raccontarle con voce umile e dignitosa nello stesso tempo, una storia da far piangere i sassi. Ognuno di noi aveva il suo metodo. Lik preferiva il genere patetico sentimentale, diceva che si adattava di più alla sua statura e ai suoi capelli biondi. Io ero truculento, di solito il superstite di una numerosa prole. Il numero dei fratelli morti variava secondo le caratteristiche della donna. Con donne dall’espressione particolarmente spietata sono arrivato a far morire sotto i bombardamenti fino a sette fratelli. Non dico che fosse molto facile, o divertente, far questo. Dopo ridevamo, ma al momento tanto io che Lik avremmo preferito farne a meno. Lasciavamo passare una, due, tre, magari quattro donne possibili, e allora Lik: «La prossima ci vai», e poi la vedevamo arrivare, la prossima, veniva avanti camminando in fretta, grassa come lo sono le donne in Belgio, con una sporta di paglia, si avvicinava, passava, era passata e allora io dicevo: «La prossima ci vai», finché alla lunga uno di noi si alzava perché bisognava bene mangiare, no? Tutto il discorso preparato, in testa, la voce, i gesti, tutto. Si cominciava, quella faceva segno di no con la testa. Non capiva. Solo il suo maledetto fiammingo capiva. Allora si faceva un mezzo sorriso e si andava via con dentro un nodo di rabbia e di sollievo. Quando andava bene ci davano del pane, ma non succedeva tutti i giorni. Avevamo anche trovato il modo di mangiare qualche biscotto. Sul Boulevard d’Italie c’era un parco divertimenti, e un banco dove facevano la lotteria. Bambole c’erano, e pentole e servizi da caffè, e buste di carta da scrivere, ma all’una di notte voi capite che la gente non ha più molta voglia di partecipare a una lotteria. Così attiravano i passanti offrendo biscotti, ogni notte. E ogni notte io e Lik eravamo lì, in prima fila. Ognuno dei presenti aveva diritto a cacciare una mano nello scatolone e prendere quanti biscotti poteva. Non che fossero molto buoni, ma non costavano niente, perché noi non comperavamo nessun biglietto dopo, naturalmente. Non li mangiavamo subito, camminando. Aspettavamo di essere seduti e con qualcosa sopra la testa, perché facesse più “pasto”. Cambiavamo casa quasi ogni notte. Avevamo tentato, in principio, gli hangar del porto, ma ogni cinquanta metri c’era un poliziotto col mitra e l’elmetto bianco. Alla stazione eravamo riusciti a scovare due panchine, incassate in un angolo dell’atrio, di marmo. Ma verso le due mi sono sentito scuotere per la spalla e guardando in su ho visto tutta una fila di bottoni lucidi con una faccia in cima. La faccia era rossa, l’uomo gridava e io non capivo una sillaba, ma non era molto difficile. Ce ne siamo andati di corsa e quello ha chiuso il portone d’entrata con una lunghissima sbarra. Di notte, in Belgio, chiudono le stazioni, come se fossero negozi di giocattoli. Allora siamo ricorsi ai rifugi antiaerei, sparsi un po’ dappertutto, ma erano sporchi e puzzavano oppure erano già occupati; poi le case sinistrate, piene di topi e di vento e i passi, lontani, vicini, nel silenzio, e Lik che diceva «e se venissero qui, e se si fermassero qui?». Non so perché, ma gli pareva sempre di usurpare i diritti di qualcuno. Una notte abbiamo trovato all’improvviso un vicolo, e in fondo c’era una porta molto alta, molto larga, una chiesa, abbiamo pensato. Era aperta. Siamo entrati ed era una specie di chiostro, tutto intorno c’era un porticato, delle panche di legno, deserto. Non era una piazza, perché c’era il tetto, e dei finestroni pallidi della luce dei fanali. Ai quattro angoli c’erano delle porte girevoli, e noi ci siamo sdraiati in uno dei quattro spicchi, e abbiamo tentato di dormirci finché all’alba qualcuno ha fatto girare la porta. Ci siamo alzati. Era un frate domenicano, e sembrava naturalissimo, tutto sembrava naturalissimo perché noi non eravamo ancora ben sicuri di non sognare. Lik gli ha chiesto dov’era il mare. Era la sua idea fissa, la nostra. Io non vedevo il mare da anni, e così Lik. Credevamo che Anversa fosse un porto sul mare. Passavamo delle ore, lungo il porto, a fiutare l’aria, immaginandoci di sentirne l’odore. Noi non avevamo un’idea molto chiara circa la posizione della città e del porto. Il fiume l’avevamo visto, grigio, l’Escaut. Ma forse eravamo nel delta, diceva Lik. Capivo che gli sarebbe piaciuto essere nel delta. E se eravamo nel delta il mare doveva essere vicino. Ogni giorno ci proponevamo di andarlo a vedere. Chiedevamo a tutti dove fosse, da che parte, in che direzione, ma nessuno rispondeva, nessuno sembrava capire. Per questo Lik ha chiesto al domenicano dov’era il mare, il mare aperto. Il frate ci ha guardati e ha fatto un segno vago con la mano. I finestroni cominciavano a colorarsi di rosa quando ci ha detto che era lontano cento chilometri.