Corriere della Sera, 19 settembre 2025
La fragilità dell’eterno
Maurizio Cattelan, artista controverso e provocatorio. Che – lo testimoniano molte sue opere – mostra una vera propensione per il marmo. Su cui Marmomac ha puntato l’attenzione per la selezione 2025 dei Best Communicator Awards.
Quasi 20 anni fa con All, e poi con L.O.V.E., lei inizia a usare il marmo: perché questa predilezione?
«Il marmo porta con sé un peso simbolico enorme: la storia dell’arte, l’idea di eternità, la monumentalità. Usarlo significava confrontarmi con quella tradizione, ma anche piegarla a un racconto diverso. In All era il modo per trasformare la vulnerabilità in monumento; in L.O.V.E. diventava un gesto contro la retorica celebrativa, quasi una parodia scolpita».
Le tecnologie allora non c’erano: come lo trattava?
«All’inizio era un corpo a corpo. Senza i supporti digitali di oggi, tutto passava da occhi e mani degli artigiani, e dalla mia capacità di immaginare in anticipo ciò che sarebbe emerso dal blocco. Era un processo lento, quasi rituale: il tempo del marmo non lo comandi, ti obbliga ad aspettare, a sbagliare, a ricominciare».
E oggi il materiale torna in due opere, Bones e November, nella mostra Seasons.
«In Bones il marmo diventa un corpo fragile: un’aquila collassata che racconta la caduta del potere invece della sua gloria. In November il marmo si trasforma in acqua e in un monumento paradossale: un corpo che urina, una panchina-fontana. Dissacrante, ma anche molto umano: un monumento alla solitudine e alla paura dell’altro».
Il marmo, materiale nobile, che dà forma a un oggetto dissacrante...
«Tradendo la sua stessa tradizione. Da simbolo di eternità e grandezza diventa veicolo di ironia, fragilità, perfino volgarità. È come se il materiale imponesse una distanza solenne, mentre l’immagine ti costringe ad abbassare lo sguardo. In quell’attrito nasce la tensione».
Lei usa materiali imperituri, come questo, e altri deperibili: la dimensione del tempo conta nella scelta?
«Il tempo è sempre parte dell’opera. Con i materiali deperibili il lavoro si consuma sotto i nostri occhi, diventa esperienza effimera. Con il marmo, invece, l’illusione è quella di sfidare i secoli. Ma nessuno dei due è eterno: l’arte non è mai fuori dal tempo, ne è la misura».
C’è una relazione tra il materiale e il concetto dell’opera? Quale viene prima?
«Non c’è mai un ordine fisso. A volte l’idea nasce già con il suo materiale, come fossero inseparabili; altre volte il materiale arriva dopo per dare corpo a un concetto che altrimenti rimarrebbe astratto. La forza vera nasce quando concetto e materia si contraddicono».
Oggi la robotica fa parte del processo creativo: in quale momento ha deciso di considerarla?
«Quando ho capito che certe idee non potevano essere realizzate solo con la mano dell’artigiano. La robotica è entrata come estensione del corpo umano: porta precisione, velocità e soprattutto la possibilità di spingersi oltre i limiti tecnici. Non sostituisce la creatività, ma apre varchi. Errore e imperfezione restano ma si spostano altrove: non più nel colpo di scalpello, ma nel dialogo tra uomo e macchina».
Qui però la relazione tra artista e artigiano è traslata verso la «macchina»: non le manca il rapporto umano?
«Anche quando entra in gioco la macchina, l’artigiano resta indispensabile. C’è chi deve tradurre i dati, preparare il lavoro e soprattutto intervenire alla fine: quella fase delicata dove nascono vibrazioni e sfumature che nessun robot sa restituire. La precisione tecnica da un lato, la sensibilità umana dall’altro».
Lei e la tecnologia: com’è il rapporto?
«Mi interessa quando diventa invisibile, quando permette all’idea di prendere forma senza imporsi. Guardo con curiosità l’AI, ma non per imitare l’uomo: piuttosto per capire come possa generare errori imprevisti, zone grigie, fraintendimenti. È lì che a volte nasce l’arte».
Il marmo ha in sé il dualismo imperituro-fragile: quanto questa ambivalenza la influenza nella sua arte?
«È proprio quello che mi affascina: il marmo promette eternità, ma basta una crepa per ridurlo in polvere. È un materiale che sembra invincibile e al tempo stesso vulnerabile. Usarlo significa mettere in scena questa contraddizione: un modo per ricordare che fragilità e permanenza convivono in ogni gesto umano».
Un’arte la sua, connessa alla manipolazione della materia: si sente più manipolatore di materiali o di concetti?
«Direi di concetti. I materiali sono il veicolo, lo strumento che permette all’idea di prendere forma. A volte basta uno spostamento minimo perché un materiale comune diventi inatteso. Ma senza un pensiero dietro, resta esercizio tecnico».
Arte immateriale vs arte immanente: quale pensa rappresenti meglio il sentire del nostro tempo?
«Viviamo immersi nell’immateriale: dati, immagini, flussi digitali che si consumano all’istante. Molta arte che lavora su questo terreno rischia però di fermarsi alla modalità, perdendo di vista il simbolismo, che è ciò che rende un lavoro senza tempo. All’opposto, l’arte più tradizionale fatica a trovare nuovi codici, e forse per questo assistiamo a un ritorno di materiali e tecniche ultra-classiche, quasi come risposta difensiva. In questo contrasto si riflette bene il nostro presente: sospeso tra l’effimero che ci attraversa e la ricerca ostinata di ciò che resta».