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 2025  settembre 19 Venerdì calendario

Il Costo della Paura

La paura corrode le democrazie. E ad alimentarla può essere la demografia, se vissuta come una minaccia per la convivenza civile: con la proiezione d’un futuro distopico in cui non sapremo più chi siamo e in cosa crediamo. Sta succedendo in Israele, col calvario di Gaza e le continue brutalità in Cisgiordania. Sta accadendo in America, con un clima d’odio che richiama alla mente un film tragicamente di successo dell’anno scorso, Civil War. Ma capita anche da noi, in Europa, con la crescita delle intolleranze e del discorso pubblico violento, in un assurdo ritorno degli opposti estremismi.
Mesi prima dell’assassinio di Charlie Kirk, il politologo Robert Pape ha messo in fila sulla rivista Foreign Affairs qualche sondaggio che, riletto oggi, suona quale cupa profezia. A gennaio 2024, il 15% degli americani pensava che la violenza fosse accettabile per indurre parlamentari e funzionari governativi «a fare la cosa giusta». E a giugno 2024, il 10% degli intervistati (pari a ventisei milioni di cittadini) riteneva l’uso della forza appropriato per impedire a Trump di ridiventare presidente mentre il 7% (diciotto milioni) sosteneva l’opzione violenta pur di riportarlo alla Casa Bianca. Pesava, certo, l’ombra lunga del 6 gennaio 2021, con l’assalto a Capitol Hill e la faglia profonda aperta allora nelle coscienze dei cittadini (il 40% reputava «patrioti» i rivoltosi).

M a le migrazioni strutturali di questa nostra era e l’inadeguata o strumentale risposta politica hanno alimentato un’aria da bivio esistenziale di sicuro non circoscritta agli Stati Uniti.
In America l’aumento di aggressioni e attentati dal 2017 contro politici repubblicani e democratici appare generato dal panico per il mutamento identitario in atto. Nel 1990, il 76% degli americani si definiva bianco. La percentuale è scesa al 58% nel 2023, scenderà sotto il 50% nel 2045. S’è detto che latinos e neri hanno ormai cominciato a votare per Trump contro i loro «fratelli» immigrati illegali. Ma ciò non toglie che la prospettiva d’una nazione non più bianca e cristiana sia stata vissuta come un’oltraggiosa minaccia al proprio stile di vita dai conservatori, infiammati appunto dalla narrazione trumpiana ormai dal 2015, l’anno della discesa in politica del tycoon. Le politiche illiberali di Trump hanno provocato, per converso, un’ondata uguale e contraria tra i democratici, non ostili alle migrazioni o comunque preoccupati per il destino delle libertà americane. Certo, l’America è violenta da sempre. Ma, pur senza aderire all’assurda equazione di chi vorrebbe affibbiare a Trump la responsabilità morale della morte di Kirk, è difficile negare che il populismo violento dei nostri giorni sia anche il frutto avvelenato d’un investimento politico che proprio Trump ha coltivato con tenacia. Con la sua retorica contro le donne, i gay, i disabili, i migranti, i progressisti. Con l’esaltazione degli insorti contro Capitol Hill, definiti «eroi».
La trappola demografica è, in fondo, ciò che ha stravolto anche la democrazia israeliana, incapace dal 1967, dopo le conquiste della guerra dei Sei Giorni, di risolvere un rebus fondamentale: annettere Cisgiordania e Gaza, accettando la conseguenza che i loro abitanti avrebbero potuto votare alle elezioni di Israele, o liberarle, perdendo così due aree viste allora come necessario strumento di sicurezza? Nel dubbio, il governo decise di non decidere, procrastinando un regime di occupazione che ha prodotto odii, ingiustizie, contraddizioni capitali per il futuro dello Stato. E in queste ore sta ponendo la nazione con la Stella di David in una dimensione di isolamento internazionale mai sperimentata prima.
E sulla demografia, con le sue varianti paranoidi e razziste quali la teoria della Grande Sostituzione (avallata imprudentemente pure da qualche politico nostrano), s’è giocata e si gioca una bella fetta delle fortune dei partiti sovranisti europei e della contrapposizione con i progressisti ai quali sempre manca, tuttavia, una chiara ricetta per affrontare il problema. Dalla notte degli stupri di Colonia, nel Capodanno del 2016, è cambiata la percezione dei migranti tra i tedeschi che, un anno prima, avevano aderito alla generosa sfida di Angela Merkel nell’accoglienza dei profughi al grido di «Wir Schaffen Das» (ce la possiamo fare!). E ha iniziato la sua ascesa Alternative für Deutschland che, a dispetto d’un Dna inquinato da parole d’ordine e reminiscenze nazistoidi, s’è piazzata al secondo posto alle ultime legislative e balla tra il primo e il secondo in tutti i sondaggi. La «remigrazione» anche di cittadini tedeschi di ascendenza islamica, e perciò ritenuti «non assimilabili», è stata la parola d’ordine che ha procurato ad Alice Weidel e ai suoi il successo elettorale ma anche un gravissimo dossier dell’Ufficio per la protezione della Costituzione (il servizio segreto interno) che potrebbe persino condurre l’AfD al bando per incompatibilità coi valori fondamentali della Repubblica federale.
Dunque, alla fine si torna sempre al motore immobile della politica nel Ventunesimo secolo: la paura. Da gestire, se si vuole smontare la trappola della demografia. Accettando una società inevitabilmente diversa. Ma senza cedimenti suicidi verso la sharia o forme di abdicazione culturale ai nostri principi e alle nostre libertà. Stando assieme nelle regole. Assimilando e rispettando. Arricchendo ciò che siamo grazie ai nuovi venuti e ottenendone lealtà costituzionale. Sembrano chiacchiere astratte finché non torna in mente Mechelen, la cittadina belga che, negli anni in cui il jihadismo imperversava in Europa, riuscì a diventare un modello d’integrazione grazie a un sindaco liberaldemocratico, Bart Somers, che seppe coniugare solidarietà e sicurezza. Certo, era un microcosmo. Ma gli ingredienti per tramutare la paura in speranza, alla fine, sono sempre gli stessi.