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 2025  settembre 19 Venerdì calendario

Intervista a Lia Piano

Lia Piano è la terzogenita di Renzo, il ragazzaccio che strapazzò i codici dell’architettura progettando con Richard Rogers il Centre Pompidou di Parigi. A detta del padre è «il pezzo forte» della famiglia, nonché la sua «picciotta», «che vuol dire piccina, ma anche un po’ canaglia», spiegò lui al Corriere qualche anno fa. Dirige la Fondazione Renzo Piano ed è appena tornata in libreria con L’arte di perdersi, una storia che mantiene la leggerezza picaresca dell’esordio, Planimetria di una famiglia felice, ma aggiunge una consapevolezza che avvolge il racconto di luce bianca: ci sono il mare e le case, i temi più «paterni», ma irrompe l’esperienza della malattia della madre appena scomparsa, la documentarista Magda Arduino, che punteggia le pagine di malinconia. Nel romanzo, la protagonista è «offesa» con l’Alzheimer, che però non viene mai nominato.
Lo era anche lei?
«Sì, molto. La malattia ha colpito in mia madre il suo organo più bello e veloce: il cervello. L’Alzheimer è una rapina: ti deruba, toglie lucidità, intelligenza, memoria, dignità. E attiva un meccanismo di autoisolamento: i malati fanno cose strane, dicono cose strane, si mettono e ti mettono in imbarazzo. Ogni malattia che riguarda la mente è ancora un tabù. Non è giusto, ma è così».
Sua madre la riconosceva?
«Non più. Per assurdo, l’unica cosa che ha reso tollerabile la malattia è che ti ci abitui piano piano, perché ti toglie un pezzetto alla volta. Il distacco così è più sopportabile».
Il vostro primo ricordo felice?
«Mi vengono in mente certe sue iniziative che variavano dall’illegale al diseducativo, come quando ci portava al parchetto per liberare i pesci rossi dalla fontana. O quando, dopo Natale, andavamo per cassonetti a salvare gli abeti abbandonati, che poi ripiantavamo nella casa di campagna dei miei nonni: ce ne sono ancora due, frutto di quei salvataggi».
Un ricordo con suo padre?
«I primi li collego alla barca, dove mi portò già quando avevo nove mesi».
È vero che la legava con una gassa d’amante per non farla cadere in mare?
«Sì, anche i miei fratelli. Il che non ci impediva di cascare dentro i boccaporti: una volta finii sopra il tavolo. Ma il ricordo più bello riguarda la sua frase mantra, che ci ripeteva con voce impostata quando dovevamo fare qualcosa di pericoloso, tipo tuffarci vicino agli scogli: “Niente paura”. Me la ripeto ancora nei momenti difficili».
Una immagine dei suoi genitori insieme?
«Sempre in barca. Indossavamo certe cerate gialle che pesavano uno sproposito: io e mia madre nel pozzetto, mio padre al timone. Facevano le traversate da incoscienti, di notte, con tre figli piccoli: da Genova puntavano verso Capo Corso, senza la strumentazione di oggi. E mica con Kirribilli, la barca che ha mio padre adesso».
Un suo tratto che ama?
«L’ottimismo, il lanciarsi sempre in avanti. Un paio d’anni fa doveva fare un intervento chirurgico, eravamo a Parigi. La sera prima aveva lasciato sulla sua scrivania un foglio con degli appunti, non resistetti e lo lessi. In cima c’era scritto: “Ricordati di fare ancora due o tre cose piene di poesia”. Ecco, uno così campa 100 anni. Glielo auguro».
Il vantaggio di essere figlia di Renzo Piano?
«Beh, l’aver vissuto la maggior parte del tempo in luoghi belli, circondata da paesaggi belli, con persone belle. Mio padre è un amante del bello, nel senso greco del termine: kalòs kai agathòs, un bello che è anche buono».
Lo svantaggio?
«I padri come lui spesso sono ingombranti, hanno vite complicate, caratteri forti. Per farti rispettare, ti devi scontrare. I papà “grandi” fanno anche tanta ombra».
La persona che è stata più felice di frequentare grazie a lui?
«Richard Rogers. Fino a poco prima che morisse, facevamo ogni anno una vacanza insieme in barca. Con mio padre aveva un rapporto fraterno, con la complessità del rapporto tra fratelli. Richard era un po’ più grande di qualche anno ed era più “smart”, mio padre ogni estate gli copiava un accessorio, il telefono o qualcos’altro. Avevano sempre un sacco di cose da dirsi. Lui lo porto nel cuore».
Appena scomparsa
«L’Alzheimer mi ha portato via mia madre, ho dedicato a lei il mio nuovo romanzo»
Il viaggio più bello?
«Un giro del mondo, nel 1998, che poi era un giro per cantieri. A San Francisco volle andare al Golden Gate Park, eravamo in scarpe da tennis e golf legato intorno alla vita. A un certo punto facemmo una deviazione per salutare il direttore della California Academy of Sciences e ci ritrovammo davanti a questa fila di tavoli: era in corso l’audizione per il nuovo progetto».
Cosa la colpì?
«Mio padre chiese se poteva cambiare la disposizione dei tavoli e ottenne una sorta di grande tavolo quadrato, intorno al quale si sedettero tutti. Poi domandò a ognuno come gli sarebbe piaciuto il nuovo edificio. Alla fine fece uno schizzo: sembrava il boa constrictor che ha ingoiato l’elefante del Piccolo Principe. E con quello vinse. Se penso che Norman Foster era appena arrivato in elicottero con una squadra di architetti, e mio padre aveva solo me vicino, mi fa un certo effetto».
Il progetto che preferisce?
«Escludo il Pompidou, perché per me è come un membro della famiglia. Direi il restauro del porto antico di Genova, perché ha proprio inciso sul profilo, eliminando le cancellate e lasciando che la città andasse verso il mare».
Era inevitabile, per lei, occuparsi della Fondazione?
«La Fondazione per me è stata un’avventura umana prima che professionale. Dopo la separazione, noi figli ci eravamo allontanati da nostro padre: a quei tempi non esisteva l’affido congiunto. Ho pensato che lavorare insieme ci avrebbe permesso di dirci cose che altrimenti non ci saremmo mai detti. Oltre al fatto che l’idea rappresentava una sfida enorme, perché non esisteva un modello per creare un archivio della memoria mentre la memoria continua a cambiare».
Il suo primo regalo lo ricorda?
«Sì, il peluche di una tigre: siamo stati inseparabili per anni, tipo Calvin e Hobbes. È finito in mare e in lavatrice non so quante volte».
Suo padre quando ha letto il libro?
«A luglio, mentre era in barca, prima che lo consegnassi a Bompiani».
Gli è piaciuto?
«Molto. Soprattutto le parti che riguardano la madre della protagonista: mi ha detto che era un modo per esorcizzare quello che poi è successo. Si è annotato tutto su un foglio, su cui ha aggiunto altri post-it gialli. Lo hanno colpito certi passaggi, come quando descrivo il passato come un sacchetto di cocci spostato di casa in casa, o la scena del falò».
Nel precedente le aveva corretto alcune misure. Questa volta?
«In Planimetria di una famiglia felice aveva obiettato che una pila di panni da stirare alta due metri avrebbe ceduto strutturalmente, così avevo cambiato la misura. Questa volta niente, il che è un trionfo, perché c’è un cantiere dall’inizio alla fine: il nuovo romanzo si apre con una dichiarazione di inagibilità e si chiude con un certificato di agibilità. Ero sicura che avrebbe avuto da ridire almeno sulla berlinese per mettere in sicurezza il terreno dalle frane».
Il sottotitolo del nuovo romanzo è: «Storia dei miei traslochi». Di quale casa ha più nostalgia?
«Di quella a Pegli della mia infanzia».
Il trasloco più difficile?
«Quelli che hanno implicato una perdita, perché il più prezioso dei tuoi beni non potrai portarlo con te. Adesso sarà difficile lasciar andare la casa di mia madre».