Corriere della Sera, 19 settembre 2025
«Mio fratello Emilio, ci volevamo bene ma ci riteneva poveri»
«Eravamo quattro fratelli: Antonio, piccolo imprenditore, era il primo, classe 1927. Poi il secondogenito Emilio, il celeberrimo giornalista, nato nel 1931. Io, il terzo, Puccio Giuseppe, professione documentarista, sono del 1935. Il quarto, Carlo, 1941, era un contabile. Sono rimasto io...».
Puccio Fede parla al Corriere in videochiamata da Sharm el-Sheikh «dove, dopo una breve vacanza risalente a circa dieci anni fa, ho deciso di stabilirmi definitivamente». Lo scorso 2 settembre è stato ai funerali di Emilio, cronista dallo sconfinato curriculum finito con la direzione del Tg4. Sorride: «Non ci vedevamo spesso, ma a nostro modo ci volevamo bene anche se lui ci considerava i fratelli poveracci. Mi invitò al matrimonio della prima figlia ma non a quello della seconda perché credo dovesse esserci Berlusconi. Però abbiamo condiviso tante cose, a partire dalla rocambolesca fuga dall’Etiopia, durante la guerra...».
Prego, inizi da qui...
«Mio padre era un poliziotto, si stabilì con la famiglia ad Addis Abeba al via del conflitto; si occupava di controspionaggio, quando una spia inglese veniva catturata, la portavano a casa nostra, nel seminterrato. Con Antonio ed Emilio sentivamo le urla...».
Poi che fine fece suo padre?
«Quando gli inglesi si ripresero l’Etiopia, fu catturato e sbattuto al Fascist criminal camp, il campo per i fascisti».
E voi, intanto?
«Rimpatriammo grazie a una colossale missione di soccorso, permessa dall’apertura di un corridoio umanitario. Mi sembra ieri...».
Riassuma...
«Gli inglesi avevano fatto circa 30.000 prigionieri italiani; ma in gran parte erano famiglie, soprattutto donne e bimbi, lì da tempo. Londra, pragmatica, non aveva alcuna intenzione di sfamarli e negoziò con il Duce, tramite la Croce Rossa, il rimpatrio».
Prosegua.
«Una mattina una jeep inglese venne a prenderci: da Addis Abeba ci portò, con mamma Cosma, a Massaua. Ci scattarono una foto, l’attaccarono su un lasciapassare: eravamo salvi, italiani da rimpatriare. Ci imbarcarono su un convoglio, quattro piroscafi dipinti di bianco e con delle gigantesche croci rosse. A bordo c’erano un sacco di nostri soldati invalidi. Quando fummo al largo, gettarono tutti le stampelle in mare. Stavano benissimo (ride). Sbarcammo a Brindisi dopo il periplo dell’Africa, gli inglesi si opposero infatti al transito per Suez delle nostre navi».
Ai funerali di Emilio, lei ha raccontato a Candida Morvillo e Nino Luca che vi stabiliste a Ostia...
«Papà fu poi rimpatriato dopo la guerra, grazie all’intervento potente di un monsignore. Restò in polizia e finì a dirigere, da maresciallo, il commissariato di Ostia».
Dove comincia anche la vita da cronista di suo fratello...
«Quando papà arrestava qualcuno Emilio origliava al suo ufficio e poi telefonava al Messaggero e al Momento Sera per dare la notizia. S’inventò anche un settimanale e per l’inaugurazione riuscì a coinvolgere Silvana Pampanini. Non sapendo poi come riportarla a casa, a Roma, la fece caricare su un camion».
Arriviamo al 1991: suo fratello Antonio, che aveva un tennis club a Ostia, denunciò degli amministratori che gli chiesero una mazzetta per un ampliamento...
«Successe prima di Tangentopoli, Antonio fu coraggioso e sfortunato: dopo la denuncia i permessi non arrivarono, finì sul lastrico; si era pure rivolto agli usurai e per pagarli vendette casa».
Emilio commentò: «In Italia a essere onesti si è in pericolo...»
«Per Antonio fu così».