Avvenire, 18 settembre 2025
La strage «silenziosa» di chi difende la Terra
Julia Chuñil aveva visto la foresta valdiviana intorno alla sua casa, nel sud del Cile, trasformarsi in piantagioni di pino ed eucalipto. Sapeva di essere nel mirino. Leader Mapuche e presidente della comunità Putreguel de Máfil, per anni aveva denunciato le coltivazioni industriali e difeso i diritti ancestrali del suo popolo. L’8 novembre 2024 è scomparsa: oltre cento volontari hanno setacciato l’area. La famiglia ha presentato denuncia per sequestro, omicidio e femminicidio, ricorrendo alla Commissione interamericana, mentre lo Stato cileno esitava perfino a riconoscerla come difensora ambientale.
Il suo nome apre Roots of Resistance, il nuovo rapporto dell’organizzazione Global Witness: 146 difensori della terra e dell’ambiente uccisi o scomparsi nel 2024, tre ogni settimana. Dal 2012 le vittime documentate sono 2.253, ma il numero reale è più alto: sotto-denuncia e paura distorcono le cifre, soprattutto in Asia e Africa. Oltre agli omicidi, minacce, criminalizzazione e violenza sessuale logorano vite e comunità. Nelle Filippine – otto casi solo nel 2024 – i difensori subiscono rapimenti, incriminazioni arbitrarie e red-tagging (false accuse di legami con comunisti o terroristi), spesso accompagnati da attacchi online orchestrati da apparati governativi. L’82% delle uccisioni documentate è avvenuto in America Latina, con la Colombia che per il terzo anno di fila resta il Paese più letale: 48 omicidi nel 2024, circa un terzo del totale mondiale.
Dopo l’Accordo pace del 2016, la debole presenza dello Stato nelle aree un tempo controllate dalle Farc ha favorito narcotraffico e estrazione mineraria illegale: Cauca, Nariño e Putumayo sono diventati epicentri di violenze e sfollamenti. Venti vittime erano piccoli agricoltori, 19 erano indigeni. E l’impunità alimenta il ciclo di violenza: in Colombia solo il 5,2% degli omicidi di leader sociali dal 2002 è arrivato a condanna.
Spesso si arresta il sicario, non chi ordina l’attacco: criminalità organizzata, interessi estrattivi, funzionari corrotti. «Non siamo difensori per scelta. Lo siamo perché le nostre terre, le nostre comunità e le nostre vite sono sotto minaccia», racconta la colombiana Jani Silva.
In Guatemala gli omicidi sono quintuplicati, da quattro a venti, otto nella sola Escuintla, roccaforte del narcotraffico: sei appartenevano al movimento contadino Ccda. In Messico, 18 difensori sono stati uccisi e uno scomparso, nove nel Chiapas, tra miniere e cartelli. In Brasile, dal 2012, 413 difensori sono stati uccisi o scomparsi, 36 afrodiscendenti. «Per noi Quilombolas, la terra è l’essenza di ciò che siamo», spiega l’attivista Selma dos Santos Dealdina Mbaye che lotta per i diritti ancestrali sulle terre delle comunità afrodiscendenti.
«I nostri antenati furono rapiti dall’Africa e costretti a lavorare come schiavi nelle grandi piantagioni. Chi riuscì a fuggire fondò i primi insediamenti: i quilombos». Proprio nel cuore dell’Amazzonia, a Belém, nello Stato di Pará, si terrà a novembre la Cop30: la stessa regione dove comunità indigene e quilombolas affrontano ancora deforestazione e minacce armate. Intanto, le agende internazionali arretrano. Gli Usa hanno riavviato il ritiro dall’Accordo di Parigi e dal Consiglio Onu per i Diritti Umani, mentre in Europa alcuni pilastri del Green Deal sono stati annacquati.
Julia Chuñil non siederà ai tavoli dei negoziati. Ma è anche nelle vite come la sua che si misurerà la credibilità degli impegni presi a Belém.