La Stampa, 18 settembre 2025
Intervista a Carlo Pellegatti
Negli ultimi sessant’anni, Carlo Pellegatti ha mancato solo una manciata di partite del Milan. L’ultima, a febbraio, è stata per un cavallo. Avrebbe dovuto raccontare la trasferta dei rossoneri all’Olimpico Grande Torino di Torino, invece era a Riad, in Arabia Saudita, per vedere gareggiare il suo «Presage nocturne». «È andata bene», abbozza con una certa soddisfazione. «Un onorevole quarto posto nella riunione ippica più ricca al mondo».
L’amore per i cavalli è arrivato prima o dopo quello per il Milan?
«Dopo. Mi ero da poco iscritto alla Statale di Milano. Prima di andare alle corse acquistavo il biglietto del metrò e della stazione Nord per tornare a Cusano Milanino, dove sono nato e cresciuto: se no, rischiavo di giocarmi tutto e di dover tornare a piedi».
Sembra una scena del film «Febbre da cavallo».
«È vero, ma per me la scommessa non è mai fine a se stessa: è sempre stata legata allo studio del terreno, della distanza, delle corse».
Il primo cavallo?
«Afodite, senza la “r”. La presi nel 1979, non partiva mai: un disastro. Nel 2012, ho avuto le prime soddisfazioni con Gasquet. Adesso i miei cavalli sono in Francia, seguiti da un grande allenatore, Alessandro Botti».
A uno di loro ha dato il nome di Ibrahimovic.
«Non a uno, ma a due: “Ibra supremacy” e “Invincible Ibra”. Loro due, devo ammettere, non un granché: Zlatan, a piedi, andava più veloce».
Il primo ricordo da milanista?
«A San Siro con mio padre, nell’ottobre del 1956, per un Milan-Napoli. Ma l’immagine più nitida è legata allo scudetto di tre anni dopo: sulla balaustra della tribuna oggi rossa, dopo un Milan-Udinese finito 7 a 0 con un’invasione di campo».
La scelta di fare il giornalista?
«Casuale. Dopo la laurea in Scienze politiche, diventai direttore commerciale di una ditta di spedizioni. Si guadagnava bene, ma il Milan era la mia passione. Così quando, nel 1981, Video Delta, l’antenato di Rete 4, prese i diritti per le repliche delle partite del Milan, telefonai. Mi proposi, feci il provino, mi presero».
Seguiva solo le trasferte?
«Sì, le partite in casa erano raccontate da un mito: Nicolò Carosio».
L’anno dopo il Milan finì in Serie B.
«Video Delta perse i diritti, così seguii i rossoneri da tifoso. Tornati in A, iniziai con le radio private. La prima, Radio Panda, mi pagava pochissimo, 20mila lire a radiocronaca, ma non mi importava. Chiesi di versarmi tutto a fine campionato, così almeno sembrava uno stipendio».
Continuava a lavorare nelle spedizioni?
«Certo. Il sistema delle radio private era organizzato ma comunque artigianale. Per le trasferte ci si arrangiava: di solito, ci collegavamo grazie a uno spinotto telefonico offerto dallo stadio delle società che ci ospitavano. Gli unici a negarcelo erano Genoa e Sampdoria: così, per trasmettere e raccontare quelle partite, pagavamo i proprietari degli appartamenti con vista sul Marassi».
Nel frattempo, iniziò a collaborare pure con Telelombardia.
«Avevano preso i diritti del Milan. Anche lì chiamai, e anche lì mi presero: erano anni in cui bisognava essere intraprendenti. Cinque anni culminati con la vittoria di un Telegatto con “Qui studio a voi stadio"».
Passò a Fininvest.
«Grazie a Marino Bartoletti, allora direttore della redazione sportiva. Contratto di un anno, a fine stagione andai da Adriano Galliani, che allora era anche amministratore delegato di Mediaset. Gli dissi: “Mi piacerebbe restare qui"».
E lui?
«Rispose: “Parlo con il Dottore"».
Il “Dottore”?
«Per noi Silvio Berlusconi non è mai stato il “Presidente” o il “Cavaliere”, ma il “Dottore"».
E cosa disse?
«Di sì. Del resto, già anni prima si raccontava che durante le partite del Milan chiedesse di silenziare la tv e ascoltare le mie radiocronache».
Ricorda il primo incontro con Berlusconi?
«Ricordo la prima intervista: letteralmente inginocchiato. Per un semplice motivo: dovevo far passare il microfono davanti a un muro di giornalisti e operatori. Così, per riuscirci, mi chinai».
Anni dopo, alcune delle sue interviste a Berlusconi sarebbero diventate delle gag popolari su «Mai dire gol».
«Il “Dottore” chiedeva sempre a chi lo intervistava di guardarlo negli occhi. Così, mentre parlava, mi veniva naturale annuire. La Gialappa’s lo notò e ci ricamò con la consueta ironia».
In quarant’anni di telecronache ha inventato un sacco di soprannomi. Qualcuno si è mai offeso?
«Marco Borriello era un bel ragazzo, un tombeur de femmes e faceva gol: lo battezzai “Kiss Kiss Bang Bang”, ma quando sbagliò un paio di gol mi chiese di cambiarglielo».
Amicizie con giocatori?
«Mai frequentati, anche se con tutti ho avuto ottimi rapporti. A un certo punto, George Weah volle che gli realizzassi una vhs con tutti i suoi gol al Milan sulle note di Bob Marley. Gliela preparai, ne fu così entusiasta che poco dopo si ripresentò con una borsa da tennis: c’erano un centinaio di cassette con tutte le partite giocate da quando aveva 17 anni. Mi chiese di estrarre i gol. Un lavoraccio, impiegai tre mesi».
È stato il prototipo del telecronista tifoso. Come possono coesistere giornalismo e tifo?
«Con la correttezza. Salvo rare eccezioni, ho sempre manifestato passione per qualcuno e non contro qualcosa».
In un Milan-Juventus del 2012 insultò in diretta Antonio Conte.
«Il punto più basso della mia carriera e uno tra i più bassi della mia vita. Ero furente, ma non pensavo di essere collegato: l’addetto alla produzione aveva inviato la pubblicità, solo che per un disguido non partì. Chiesi scusa a tutti: a Conte, alla Juve e ai tifosi. Mesi dopo, incrociai Antonio prima di un Milan-Barcellona, mentre allenava la Nazionale. Fu cordialissimo, un vero signore».
Dopo l’addio alle telecronache, ha aperto un canale Youtube.
«L’idea venne a un amico di mio figlio, Enrico Bricchi. Non sono Chiara Ferragni, ma oggi tra TikTok, Instagram e Youtube ho più di 400mila follower. È stato come tornare alle radio private. Con una differenza».
Quale?
«Gli haters: un tribunale del popolo che prova a nascondersi nell’anonimato. Ma su quelli ho trovato il modo per non transigere: la maleducazione va sempre punita».