repubblica.it, 18 settembre 2025
Beppe Carletti dei Nomadi: “La Rai ci censurò. Il successo di Io vagabondo? Un mistero”
Parlare con i Nomadi significa parlare con un pezzo di storia d’Italia. Non solo perché il gruppo fondato da Beppe Carletti (tastiere e fisarmonica) e Augusto Daolio (voce) gira dal 1963, ma perché in tutti questi anni è sempre rimasto a bassa quota, per scelta. “Non abbiamo smesso di frequentare le feste di piazza, specie al Sud”, racconta lo stesso Carletti, classe 1946, emiliano d’acciaio e nessuna intenzione, giura, di farsi da parte. È da quella prospettiva, dice, che si vede davvero il paese. Dalla morte di Daolio, nel 1992, è rimasto l’unico a portare avanti l’eredità e l’unità del gruppo, in cui intanto si sono susseguiti oltre venti musicisti, in tutti i ruoli, frontman compreso, fedeli allo spirito nomade degli esordi. Ma la carovana oggi indossa l’abito buono, perché esce questo Live al Teatro Dal Verme, album dal vivo registrato a un concerto a Milano dello scorso anno, al Teatro Dal Verme. Ovviamente ci sono tutti i classici, da Dio è morto a Io vagabondo (che non sono altro). “Non potevamo che descriverci con un live”, continua Carletti.
Pensi, oggi i dischi dal vivo neanche si fanno più.
“Per noi la dimensione dal vivo resta fondamentale, sarà che siamo nati proprio così. Io e Daolio eravamo due campagnoli emiliani con il sogno della musica: a 16 anni, un’estate, ci caricano su un furgone per portarci a Riccione. I Nomadi, di fatto, nacquero lì: suonando io e lui, lui ed io, tutte le sere, per 77 giorni di fila”.
Come andò?
“Ci divertimmo da matti! Non avevamo mai neanche visto il mare, figurarsi il via vai estivo di quelle sere. Imparammo tanto, specie a sporcarci le mani. Non ho mai smesso e soprattutto non ho mai smesso di divertirmi, sul palco e in giro. Vale lo stesso per i Nomadi tutti, passati e presenti: già il nome evocava un sogno, di stare sempre fuori; ce l’abbiamo fatta, oggi ci piace davvero viaggiare, stare in piazza, tra la gente. Lì si respira davvero”.
Qui però c’è un teatro di mezzo.
“Circa 1500 spettatori, e in più altre dieci date in tutta Italia, sempre nei teatri e sempre con questi numeri. Non ce l’aspettavamo, se dovessimo fare affidamento solo su quelli della nostra generazione, ovviamente, sarebbero pochissimi sotto il palco. Invece la magia si rinnova, non so come. E sono sold out veri, eh”.
A proposito: voi, l’ansia degli stadi, non l’avete mai avuta neanche ai tempi d’oro?
“Macché. Ci siamo sempre sentiti mestieranti, magari era una questione nostra, ma all’epoca anche i veri giganti avevano questo approccio. Parliamo degli anni Sessanta, un periodo in cui si suonava nelle balere, nei cortili delle chiese, forse nei primi campi sportivi. Noi abbiamo sempre dato il massimo, a testa bassa. La fortuna fu di incontrare Francesco Guccini, un modenese, un vicino di casa. Da Canzone per un’amica a Dio è morto, scrisse le canzoni con cui ci aprimmo la strada”.
Si dice che nella musica italiana il Sessantotto è cominciato nel 1967, proprio con “Dio è morto”.
“Verissimo. Fu la prima canzone di protesta, intorno a noi stava nascendo De André, poi sarebbe arrivato anche De Gregori. Come tutte le pioniere, dovette scontrarsi con una porta durissima: la Rai per esempio ci censurò, e non nego che ce lo aspettavamo, la casa discografia ci aveva avvisato, ma noi quando ci mettiamo in testa una cosa, sa, andiamo fino in fondo. Invece Radio Vaticana ci invitò per un concerto, pensi un po’”.
Cinquant’anni dopo, Dio è ancora morto, diremmo, no?
“Sì, si è perso tutto. Non è semplice il giudizio su quell’epoca. Da un lato, per carità, l’Italia era ancora un’Italietta, bigotta, che censurava. Dall’altro, il mondo era un posto migliore, essere giovani allora significava avere una prateria davanti a sé. Io ero povero, avevo vissuto l’Italia degli anni Cinquanta, ma da lì avevo visto un paese alzarsi solo con la forza del lavoro. E i costumi finalmente stavano cambiando, si stavano aprendo. Il Sessantotto è stato bellissimo, da quel punto di vista. Ma non ha costruito un mondo migliore, anzi, in termini di pace. Penso ai miei nipotini: io, da ragazzo, avevo prospettive davanti a me, oggi sono terrorizzato da ciò che troveranno”.
È nostalgico?
“No, quello no. Penso però che i destini del mondo dipendono anche dalle nostre piccole azioni, che ci sono guerre perché tutti, nel nostro piccolo, siamo in guerra. E viceversa. Mi spaventano anche i social, l’uso compulsivo che facciamo del telefono, bambini compresi. Per carità, di nuovo, eravamo un paese chiuso e povero. Ma mio papà, per dire, moriva dalla voglia di stare la domenica mattina in piazza. Ora credo si vada incontro al deserto”.
Di musica invece? Chi le piace dei nuovi?
“Ultimo e Lucio Corsi, tra i tanti. Gente che canta e suona per davvero, grandi talenti. Con altri, quelli che usano linguaggi più estremi, non riesco a connettermi. Sarà che vengo dal romanticismo, non riesco a trattare in quel modo le donne”.
Non è che lei, da Dio è morto, è diventato a sua volta il censore?
“No, e le spiego anche perché: all’epoca non volevano farci cantare, io invece sono per far cantare tutti, anche i più estremi; dico solo che non è roba mia”.
Ma i Nomadi, in tour, qualche eccesso l’hanno mai avuto?
“Macché, mai. Siamo gente, più che buona, proprio semplice. Semplice e laboriosa, all’emiliana. E forse è per questo, al di là di tutto, che siamo durati così tanto”.
Il momento più difficile?
“La morte di Augusto, nel 1992. Mi sono detto: è finita. Il lutto resta, ed è devastante. Ma con la forza delle idee e del lavoro siamo andati avanti. Tanti gruppi, senza il frontman, invece si perdono. Mi stupisco se penso che qui abbiamo appena registrato un disco dal vivo, questo, con Yuri Cilloni alla voce, che è con noi da otto anni. È di tutt’altra generazione, più giovane, ma è ‘un nomade’: uno semplice e operoso. Dice: perché i Nomadi sono ancora qui? Mica perché sono i più bravi, ci mancherebbe. Ma perché si divertono – le altre band, mica lo so”.
Come si spiega il successo eterno di “Io vagabondo (che non sono altro)”?
“Non me lo spiego, addirittura negli anni Ottanta l’avevamo tolta dalla scaletta, tanto era passata di moda. L’ha ripresa Fiorello, nei Novanta, con il Karaoke. Da lì è diventato l’inno di tutti che è oggi. Ma è anche un pezzo profondamente nostro: Alberto Salerno, che ne ha scritto il testo, ha sempre detto che avremmo potuto cantarla solo noi”.
Carletti, ammetta, i Nomadi sono il suo elisir per restare giovane.
“Ho 79 anni e voglio continuare ancora. Si figuri, se in tutto questo tempo, invece di stare in tour, sarei rimasto a casa sul divano, be’, sarei già morto”.