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 2025  settembre 18 Giovedì calendario

Intervista a Björn Borg

IceBorg si è sciolto. È caldo, amichevole, disponibile. Pantaloni e maglione blu (senza marchio), capelli bianchi. È un martedì di fine agosto e lui arriva in anticipo nel palazzo della Norstedts Förlag, la più antica casa editrice svedese. Cede la poltrona con la vista più bella. Björn è accompagnato dalla moglie Patricia, cascata di capelli biondi, bel sorriso. Borg in breve: 69 anni, tre matrimoni, due figli. In formato rettangolare: 11 Slam, 6 Roland Garros, 5 Wimbledon consecutivi. Quello che hanno fatto i Beatles nella musica, lui lo ha fatto nello sport. Una rivoluzione. Ha sedotto il mondo, ha lanciato uno stile, top-spin e rovescio a due mani, ha dominato e cambiato il tennis, lo ha fatto diventare pop. E lo ha anche lasciato prestissimo, a 26 anni. Il nome svedese più di successo: come gli Abba, Ingemar Stenmark, Ikea. Una scossa sexy che vestiva italiano. Il mito dei teenager che finalmente potevano entrare in campo. Ora in un’autobiografia, Battiti per Rizzoli, racconta tutto: infanzia, amori, dipendenze, tradimenti, divorzi, solitudini, disastri commerciali, perdite, malattia, riassestamenti esistenziali. La fama, la fame chimica, i (tanti) soldi.
Più difficile tornare indietro o guardarsi dentro?
«Non sono un tipo che si mette a raccontare le sue notti e i suoi peccati a gente che non conosce, per questo avevo detto sempre no a chi con insistenza già negli anni Novanta voleva scrivessi un’autobiografia. Le offerte erano tante, ma io sono riservato, se devo tirare fuori i miei demoni, preferisco una persona amica, che mi conosce, di cui mi fido. Ho letto Open di Agassi e Sul serio di McEnroe, li ho apprezzati, ma io sono diverso e volevo un’altra cosa. Così una sera a cena mi è venuta l’idea di chiederlo a mia moglie: tu mi conosci, che ne dici? Mi ha risposto che ci avrebbe pensato. Ci abbiamo messo tre anni».
Per confessare droghe e vizi privati non era meglio un estraneo?
«Patricia è la mia migliore amica, sa tutto di me, non avevo imbarazzi. Per fare i conti con me stesso era quella giusta, anche se correvo il rischio che divorziassimo. Ci siamo sposati nel 2002, l’anno dopo è nato nostro figlio Leo, nel 2016 a Las Vegas abbiamo rinnovato le promesse. Per la cerimonia ho scelto un sosia di Elvis, quello vero lo avevo visto in concerto nel ’73 alle Hawaii. Era stato la colonna sonora della mia gioventù».
La maglietta fina a righe, la fascetta sulla fronte, i capelli lunghi. Lo stile Borg è finito anche nel film “I Tenenbaum”. Qualcuno glielo ha suggerito?
«Ma per carità. Mi piaceva, tutto qui, non volevo inventare niente. Erano gli anni Settanta, c’era una voglia giovane di dire: guardateci, siamo belli anche noi, lontani dalla tradizione. Diventò isteria, eravamo le rockstar del tennis, suonavamo musica nuova. Io sono stato il primo: a scegliere, tra le polemiche, come residenza Montecarlo, a farmi seguire da un coach, “Labbe” Bergelin, a sottopormi a lunghi massaggi, a prepararmi atleticamente. Poi lo hanno fatto gli altri».
Per Adriano Panatta lei è un matto calmo.
«Non sono così calmo, ma è vero che sono un po’ folle, non ho mezze misure. Per me il grigio non esiste, o bianco o nero. In campo era organizzato e programmavo, fuori invece no. Sono Gemelli, ci sono due Borg, opposti e conflittuali. E poi sono superstizioso, credo in altri tipi di presenze e di influenze e nella medicina alternativa, tanto che a Londra mi feci seguire da un guru, un guaritore, noto come Tia Honsai. Sembrerà strano, ma per tre anni mi sono affidato a una medium».
Come Nils Liedholm. E cosa hanno detto gli astri?
«Che le stelle non erano a mio favore. Per questo l’Us Open per me era maledetto, quattro finali, nessun successo. Nessuna previsione sbagliata: il matrimonio con Mariana sarebbe andato male, la mia impresa commerciale sarebbe fallita, avrei avuto figli. Ero scaramantico, non mi tagliavo la barba fino alla fine del torneo, dovevo avere in campo sempre la stessa sedia, i miei mi seguivano ad anni alterni, a Parigi negli anni pari e a Londra in quelli dispari. A Los Angeles sono di nuovo ricorso a una medium perché ero convinto che Alstaholm, la nostra casa di famiglia a Värmdö, fosse piena di energie negative. Lei confermò, ma quando pretese di allontanare gli spiriti maligni al telefono ringraziai e me ne andai».

Si è ritirato nell’81 a New York, come un’altra svedese, Greta Garbo, che però lasciò a 36 anni.
«Il mio non fu un ritiro, ma una fuga. Non ne potevo più. Persi da McEnroe, andai a fare la doccia, disertai la premiazione, e con i capelli ancora bagnati mi diressi con mia moglie e con Bergelin a Sands Point, Long Island, dove avevo casa. Era piena di ospiti, avevano programmato una festa, mi davano tutti per favorito, quando arrivai calò un velo di delusione, ma il più avvilito ero io, non salutai nessuno, attraversai il giardino».
E si diresse in piscina con una cassa di birre. Era finita la sua gioventù o il suo tennis?
«Leave me alone, urlai a chi mi voleva seguire. Volevo stare solo, ubriacarmi, non provavo più gioia in campo, ma fuori non ero nessuno. Tutti volevano qualcosa da me e io mi chiedevo: è davvero così che devo passare ogni giorno della mia vita? Rientrai in casa dopo ore, salutai, sapevo recitare la parte. Ma era finita e l’avevo deciso in quella piscina».
Forse le sarebbe servito un aiuto. Gli atleti oggi mettono in primo piano il benessere mentale, si servono di figure professionali.
«Capisco il ragionamento: perdi, hai brutti pensieri, ti fai curare. Ma se anche avessivinto contro McEnroe la mia vita non sarebbe cambiata. Sarei passato da un successo all’altro. Possibile non ci fossero altri orizzonti? Ci sono gli psicologi, certo. Per l’atleta, ma per l’uomo? Servono a rimettere a posto il gioco, ma non era quello a essersi rotto, ero io. Non volevo di più, ma altro».
Rimpianti per quella scelta?
«Non so, avrei potuto fermarmi un po’ e riprendere dopo. È quello che suggerivano tutti, la Diadora, uno dei miei sponsor, arrivò a offrirmi quote dell’azienda per farmi tornare. Ma lo ammetto, andarsene così fu uno sbaglio, ero solo, senza piano di riserva, i primi tempi ero contento, finalmente ero libero, niente più orari e impegni, una pacchia. Ma non si passa indenni dal grande tutto al grande niente. Iniziai a scricchiolare, ad avere dubbi sul matrimonio con Mariana che senza tennis non avrebbe retto».
Non sarà stato tutto brutto: cita lo Studio 54 a New York e l’entusiasmo di un’epoca.
«Tutti quelli che lo frequentavano avevano qualcosa di unico. Lì ho conosciuto Andy Warhol che mi ha regalato con dedica una sua Campbell’s Soup e nell’82 ho provato la polvere bianca. Poi ho aggiunto alcol e medicinali. E giù cocktail. Lì è iniziata la mia caduta: mi trascinavo nei night, mi stordivo con feste e festini, perché tornare a casa? Ero depresso, avevo attacchi di panico, divorziai, mi misi con Jannike Björling, nacque Robin, ma non ero un padre all’altezza. E soprattutto avevo paura di stare solo, sovrapponevo le relazioni, se non avevo compagnia me la procuravo. Conobbi Loredana Bertè a Ibiza, mi trasferii a Milano, ma per me che lottavo contro droghe e farmaci quella città fu un disastro. Però non è vero che nell’89 il mio fu un tentativo di suicidio. Ero solo sfinito,stanco di vivere in quel modo, era un grido d’aiuto. Ho sempre avuto paura dei conflitti, preferisco fare un passo indietro».
Si era impasticcato, la salvò Loredana.
«Sì, le devo la vita. Mi trovò a letto incosciente, chiamò l’autoambulanza, all’ospedale mi fecero una lavanda gastrica. Frequentavo persone sbagliate, accettavo passivamente tutto, ero in un groviglio. Loredana che era diventata mia moglie voleva un figlio, era comprensibile, aveva sei anni più di me, arrivai a depositare un campione di sperma per l’inseminazione. Ma per salvarmi dovevo fuggire da lei e da quell’ambiente. Mi trasferii a Londra e ripresi ad allenarmi. Quando mi sono risposato lei mi ha denunciato per bigamia e la sua accusa mi ha impedito di tornare in Italia.
E comunque a Milano non ci ho voluto più mettere piede».
Il suo non sembra un fisico debilitato.
«Vero, ho avuto fortuna, mai un chilo in più, mascheravo bene, il mio corpo non mi ha tradito, mi peso ogni giorno, e guai all’etto in più. Nei 60 metri, i dieci passi più decisivi del tennis, non mi batteva nessuno, la mia frequenza cardiaca a riposo è di 38 battiti al minuto. Oggi mi sveglio alle sei, ogni mattina faccio 45 minuti di cyclette, la sera vado a letto alle 10, spesso senza cena, con mia moglie ci accontentiamo di un panino. Niente più superalcolici, solo vino bianco e birra».
Potesse rivivere un giorno della sua vita?
«Sarebbero due. Quando a Milano mi sono detto: cosa faccio per tirarmi via da questo strazio? Apro un ristorante o torno a giocare?
E quando ad aprile ’91 rientrai al torneo di Montecarlo contro lo spagnolo Jordi Arrese.
Avevo 34 anni, lui 26, ero fuori da sette stagioni. Giocai con la racchetta di legno, persi in due set, salii in auto con i miei per andare nella nostra casa di Cap Ferrat, restarono meravigliati dalla mia faccia felice. Nessuno aveva capito che non ero tornato per vincere, ma per vivere. Il tennis era il mio appiglio, lo scoglio in un mare in tempesta».
I suoi genitori l’hanno sempre sostenuta.
«Sì, sono figlio unico, e averli delusi per me è stato un dolore enorme. Che mi drogassi era ormai chiaro, eppure tra di noi su quell’argomento nemmeno una parola.
Anche se mio padre era con me quando in Olanda a metà anni Novanta collassai mentre camminavo. Finii in ospedale, avevo appena ripreso a giocare, ma ci ero ricascato perché se anche vuoi smettere con la dipendenza, i vecchi amici, se vogliamo chiamarli così, ti trovano sempre e approfittano delle tue fragilità. Mi resta la felicità di quando da ragazzo vinsi la prima coppa e suonai il campanello di casa perché volevo che mia madre Margareta venisse ad aprirmi e la vedesse. Avevano un piccolo negozio di alimentari, quando giocai una finale Wct a Houston contro Rod Laver, che era il mio mito, loro rientrarono in Svezia perché lunedì avevano la consegna del latte».
Ha venduto i diritti del suo nome.
«Sì a un gruppo di investitori. Adesso i ragazzi che si avvicinano mi mostrano tutti fieri le mie mutande, per loro sono una marca di boxer più che un tennista. La mia prima impresa commerciale è stata un disastro, mi ha lasciato debiti che ho dovuto coprire personalmente, liberandomi di case e barche. Sono stato tradito dai miei soci. Ero ingenuo, andai alla presentazione del mio profumo, si chiamava 109. Chiesi: perché questo nome?
Perché per 109 settimane sei stato numero uno del mondo. Io nemmeno lo sapevo,
non ero schiavo dei numeri come i giocatori attuali, anzi proprio non m’importava».
È un invito a liberarsi dal peso delle statistiche?
«Oggi ne siamo travolti. Generano nevrosi e chi gioca a tennis ne ha già abbastanza. Non possono essere la vostra colonna sonora, al massimo un rumore di fondo.
A me interessava vincere i tornei importanti e quelli del Grande Slam, non contare i successi consecutivi e i giorni incima alla classifica. Senza contare che si gioca veramente troppo. La sensazione di aver fatto qualcosa di buono oggi non me la danno i numeri, ma l’essere amico di quelli che erano i miei avversari».
Ha messo in vendita i suoi 5 trofei di Wimbledon.«Era un modo di dire addio a quel periodo. Nel 2006 a Londra mi rivolsi alla casa d’asta Bonhams. John McEnroe mi ha costretto a ripensarci dicendomi che quelle non erano solo coppe, dentro c’erano anni, rapporti, vite, anche la sua. Ricomprarle mi è costato caro perché il prezzo era salito. Invece mi hanno detto che qualcuno sul web vende la vecchia saracinesca del garage su cui ho iniziato a palleggiare da ragazzo».Nel libro parla del problema di passare le frontiere con il contante.
«Quando ho iniziato a partecipare a tornei ed esibizioni il compenso era cash. Viaggiare con mucchi di soldi non tranquillizza. In Sudamerica negli anni 90 mi pagarono con molti bigliettoni, peccato fossero falsi, a Bombay nascosi le banconote nel fodero delle racchette, ma lo scanner le individuò, mi vedevo già in galera quando il doganiere mi disse: have a nice flight, Mr. Borg. Una volta viaggiai con un sacco da Babbo Natale, la ricompensa era di biglietti da un dollaro. Mia madre nascondeva i soldi negli assorbenti. A San Pietroburgo mi hanno rapinato in hotel, sono entrati armati nella stanza, per il ritorno ho preferito noleggiare un aereo privato. In Italia hanno promesso di accreditarmi 100mila dollari, bene ho pensato, problema risolto. Non sono mai arrivati».

All’inizio ha seguito la carriera tennistica di suo figlio Leo. Ora chi le piacerebbe allenare?
«L’americano Shelton e l’inglese Draper. Energici e aggressivi. Sinner ha già un ottimo team e una famiglia solida. È serio, determinato, feroce, vincerà altri Slam, non vedo pericoli, se non la sfortuna di avere qualche infortunio. Ma avete anche il magnifico rovescio di Musetti, le profondità di Cobolli, il tennis italiano offre tanto».
Cosa capisce del mondo di oggi?
«Che è impazzito. E che tutto sta in un telefonino. E che le nostre ingenuità di ieri oggi ci avrebbero distrutto. Io e Vitas Gerulaitis andammo a fare un’esibizione a Tel Aviv in Israele e poi ci allungammo al Mar Morto dove alcuni soldati ci riconobbero e dopo il bagno ci proposero di provare le loro divise. Ci ritrovammo da stupidi ignoranti con le mitragliatrici in mano. Qualcuno fece clic. A Parigi trovai una folla di cronisti ad aspettarmi. Cosa avevo combinato? Le Br mi minacciarono di morte, mi rifugiai a Cap Ferrat con 8 guardie del corpo, il mio caso arrivò a Yasser Arafat, capo dell’Olp, che in un messaggio pubblico disse che nessuno avrebbe dovuto toccarmi. Ho imparato la lezione, tengo per me le opinioni politiche».
Di recente è stato operato.
«Di un cancro alla prostata molto aggressivo. Invito tutti gli uomini a fare prevenzione perché è un tumore silenzioso. Il medico mi ha chiesto quanto volessi vivere. Gli ho risposto: per sempre non si può, ma qualche anno ancora sì. E lui: allora deve operarsi al più presto. E così sono andato dritto in ospedale. Ora faccio controlli ogni sei mesi».
Che posto si assegna nella storia del tennis?
«Nei primi cinque ci posso stare. Per numero di titoli Djokovic ha vinto di più, ma io Federer e Nadal abbiamo portato il tennis in un’altra dimensione. La mia vita è stata una lunga partita, non sono stato solo a giocarla, sono grato a tutti. Dalla cima ho visto il fondo, ma ne è valsa la pena».