Corriere della Sera, 18 settembre 2025
Intervista a Umberto Cicconi
Era la metà degli anni ’70. Per trovare volti da pizzicare, bazzicavo via del Corso, sede del Psi. Scattai una foto a Pietro Nenni che camminava tra i passanti e la vendetti a Panorama. Bettino la vide, gli piacque, mi fece chiamare da Daniela Scarso, la portavoce. Lui fu di poche parole e dopo avermi squadrato mi fece: “Tu sei uno spirito libero! Lavorerai per me!”. Entrai così nel suo mondo». Dopo quell’incontro Umberto Cicconi, 66 anni – romano di Ostia, periferia da romanzo criminale – è sempre rimasto accanto a Craxi, sia quando era ai vertici e al potere, sia nella polvere del deserto tunisino. Un’ombra continua, visto che del leader socialista Cicconi è stato il fotografo personale sino al giorno della scomparsa, il 19 gennaio 2000. Non solo: ne è stato anche amico, confidente, uomo di fiducia, quasi un terzo figlio. Come Bobo, come Stefania.
Cominciamo con un avviso di garanzia...
«Sì, quello per corruzione che mi giunse un paio di settimane prima che, il 17 febbraio 1992, venisse colto in flagrante Mario Chiesa, il mariuolo del Pio Albergo Trivulzio, come lo bollò Bettino».
Che successe?
«Mi notificano l’avviso mentre sto uscendo di casa. Ero in Vespa, delle guardie mi avvicinano, mi scortano in tribunale, a piazzale Clodio. Salgo al piano dei gip. Uno 007 in borghese mi fa: “Io so che lei non c’entra niente”. Parole ripetute poi dal magistrato. Che però mi contesta una mazzetta da cinque milioni di lire, l’avrei chiesta per favorire un permesso di ampliamento per un ristorante ai Parioli. Sebbene nelle carte ci fossero altri nomi, mi viene fatto capire che erano interessati solo a “Umberto Cicconi, l’uomo di Craxi”».
E Bettino?
«Corro ad avvertirlo. Ma lui sapeva già tutto perché Renato Squillante, capo dei gip, lo aveva informato di persona. Ha chiaro che è un messaggio per lui, glielo aveva detto pure Renato... ma fa finta di non capire e mi chiede: “Dimmi la verità, cos’hai combinato?”».
Lei che rispose?
«Furibondo, grido: “Ma che fai? Sai che se avessi fatto qualcosa te l’avrei detto per primo! Finiscila con questa farsa!”. Quando poi esplode Tangentopoli, mettiamo assieme tutti i pezzi di questa storia infinita e io sbotto: “Hai fatto il tuo percorso, adesso basta!”. Se mi apprezzava, era anche per la mia franchezza. Era cominciato l’accerchiamento, ma lui non se ne rendeva conto».
Lei e la sua famiglia siete di Ostia...
«Abitavamo in una casa popolare a piazza Gasparri, a 300 metri dal campo da pallone in cui uccisero Pasolini. La banda della Magliana stava organizzandosi.. Tra i miei amici d’infanzia c’era Roberto Pergola, er Negro, quattro anni più di me, poi uno dei capi del gruppo di Ostia. Lo stroncò un brutto male, andavo a trovarlo, anche di recente, quando aveva i polmoni attaccati a un respiratore. Venivamo dalla strada, in strada c’è una regola: non si fa la spia, se si fa la spia sei morto».
La fotografia come arriva nella sua vita?
«Grazie a una Leica comperata per 50.000 lire al mercatino degli immigrati russi al Pontile di Ostia. Mi entusiasmai, attrezzai un laboratorio, sviluppavo. Vendevo foto ai quotidiani. Morti ammazzati, incidenti... Avevo fiuto e avevo capito che la politica tirava, però solo se vista in un certo modo».
Cioè?
«Per esempio un giorno, fuori da un’assemblea del Psi, vedo un ragazzino con un pallone. Per 5 mila lire me lo faccio dare, lo lancio a Paris Dell’Unto che palleggia, Giacomo Mancini guarda, palleggia pure Antonio Landolfi. L’Espresso mi paga l’intero servizio 500.000 lire. Ecco, inventavo scene così».
E Bobo? È suo cognato e un amico caro...
«Ha sposato Scintilla, mia sorella. Anche lei di sinistra, idealista. La portai al partito, mi aiutava a classificare l’archivio fotografico. Si conobbero nel 1988, entrambi 22enni, frequentandosi in mia assenza, quando accompagnavo Bettino in giro per il mondo. M’imbestialii, conoscevo a fondo Bobo, con le ragazze voleva solo divertirsi. Lo affrontai a muso duro: mi rispose che stavolta faceva sul serio. Era vero, oggi sono una bellissima coppia».
Craxi le permetteva di pubblicare tutto?
«Un giorno mi convoca Daniela Scarso che mi chiede: mi fai vedere quel servizio che hai fatto a Genova? Poi guarda i 40 scatti trattenendo però gli ultimi 4 che consegna a Bettino. Lo avevo ritratto a una manifestazione con Ania Pieroni, sua fiamma all’epoca, l’attrice poi proprietaria dell’emittente Gbr. Ero fuori di me, così entrai nel suo ufficio e mi alterai: “Bettino, non è giusto: o mi dai fiducia o non me la dai. Sono il tuo fotografo personale e di questa storia non sapevo nulla, avesti dovuto informarmi”. Me le ridiede tempo dopo, senza dirmi niente. Tra noi bastava un’occhiata».
Di Sigonella che ricordo ha?
«All’una e mezza di notte, a incidente appena concluso, al Raphael arrivò una telefonata di Reagan a Bettino. Ero fuori dalla stanza, sentii la sua risata fragorosa. Non seppi mai che si dissero. Ho sempre avuto il sospetto che tra loro ci fosse un accordo. Del resto durante i successivi G7, con Reagan sembravano amici di vecchia data».
Ma John Gotti, il capomafia?
«Nel 1988 accompagnai Bettino a New York. Una sera lui non volle uscire e l’autista della delegazione, un simpaticissimo italoamericano, insistette per cenare in un ristorante a Little Italy. Non un caso. Tra una portata e l’altra, arrivò una bottiglia di champagne offerta da gente di un altro tavolo. Tra loro John Gotti, cortesissimo: “Sit down, noi sappiamo chi sei, ci piaci, resta qui, ti daremmo una mano”. Risposi che avevo già un boss, non lo avrei mai lasciato. Quando glielo raccontai, Bettino si sbellicò».
È vero che lei portava ad Hammamet i filmati dei discorsi del Duce presi dagli archivi Rai?
«Ci vedevamo certe scene... le bonifiche, l’Agro romano, lui e io da soli. Lo prendevo in giro: “Domani lo racconto a tutti” e lui rideva: “Umberto, che dici!”».
Cicconi, di cosa si occupa oggi?
«Bettino mi spinse sin dal 1984 ad acquistare gli archivi dei grandi fotografi che si avviavano alla pensione. Oggi posseggo sette milioni di negativi e lastre e ogni immagine è un romanzo della storia d’Italia. Valorizzo questo patrimonio».
Mani pulite a parte, dov’è inciampato Craxi?
«Nel 1989 lo sollecitarono ad adoperarsi per far cadere il muro di Berlino. Ma Andreotti lo implorò: “Non farlo, Bettino, sarà la nostra morte”. Previsione azzeccata, ma lui non comprese quel consiglio. Poi ebbe tutti contro».
Le monetine al Raphael ?
«Mi avvertirono i servizi... A Ciccò, guarda che lo vonno contestà... Glielo riferii e lui rispose: non me ne frega un c.... Uscimmo, una monetina mi centrò. In auto lui rimase serio, disse solo: “È una vergogna”».