Avvenire, 17 settembre 2025
Trump rompe con Bogotà sulla coca
Il duello va avanti fin dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Il “casus belli” era stato, il 26 gennaio, il rifiuto del colombiano Gustavo Petro a far atterrare due aerei militari statunitensi con a bordo decine di migranti espulsi. L’Amministrazione Usa aveva impiegato “l’armadazi”, riuscendo a piegare la controparte dopo alcune ore di massima tensione. Da allora, è stato un continuo braccio di ferro fra il tycoon e l’ex guerrigliero. Fino all’ultimo, però, Bogotà aveva sperato di evitare che la crisi coinvolgesse la lotta alla droga. Invano. Per la prima volta in trent’anni, ieri, Washington ha tolto al Paese andino la “certificazione” di partner affidabile nel contrasto al traffico di cocaina, certificando, di fatto, la parabola della Colombia da alleato strategico chiave in America Latina a “enfant terrible”, al pari di Myanmar, Bolivia e Venezuela.
La rimozione dall’elenco della ventina di nazioni produttrici impegnate nel contrasto implica tagli potenzialmente ingenti – 380 milioni di dollari l’anno – in aiuti statunitensi. Anche se – come ha spiegato il segretario di Stato, Marco Rubio – non verrà toccata la cosiddetta “cooperazione critica”, senza spiegare cosa effettivamente significhi in termini di risorse. A mo’ di risposta, il governo Petro ha dichiarato lo stop alle importazioni di armi dal vicino del Nord. Retorica a parte, il momento non potrebbe essere peggiore per Bogotà, impegnata in un difficile dopoguerra. La pace con le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc) – raggiunta nel 2016 con il contributo dell’Amministrazione Obama – è in costruzione. Appena ieri la Corte speciale creata dall’accordo ha emesso la prima condanna nei confronti dei vertici della guerriglia. Applicando il sistema di giustizia riparativa, come previsto, i magistrati hanno imposto al leader Rodrigo Londoño alias Timochenko e altri sette alti comandanti otto anni di lavori di riparazione, la pena massima prevista, per i sequestri di massa perpetrati durante il conflitto. «Abbiamo rotto un ciclo di impunità lungo oltre mezzo secolo», ha esultato il presidente del Tribunale, Alejandro Ramelli. La pacificazione con gli altri gruppi armati – protagonisti nel traffico di coca – è impantanata. Nelle ultime settimane una raffica di attentati ha insanguinato il Paese e ucciso decine di poliziotti e soldati. Sulla scia dell’accordo del 2016, la linea Petro cerca di raggiungere un difficile equilibrio tra fermare il flusso di droga evitando di far pagare il prezzo più alto all’anello debole della catena: i contadini poveri che, dato lo scarso accesso al mercato per mancanza di infrastrutture, hanno poche alternative. Da qui la scelta di ridurre al minimo le erradicazioni forzate: meno di 10mila ettari distrutti l’anno scorso. Un segno – sostiene Washington – dello scarso sforzo della Colombia. In effetti, la superficie coltivata è quintuplicata in poco più di decennio, raggiungendo quota 253mila ettari. Di contro, però, Bogotà ha intensificato i sequestri di coca: oltre 1.700 tonnellate nei primi due anni di governo Petro, mezza tonnellata dall’inizio del 2025. La Colombia accusa Washington di utilizzare la lotta ai narcos come strumento politico per premiare alleati e punire i rivali. È il caso – ha ripetuto ieri Petro – del Venezuela. Washington ha affondato tre imbarcazioni di Caracas accusate di trasportare stupefacenti. Le ultime due nella notte fra lunedì e ieri: tre persone a bordo sono state uccise. «Omicidi», li ha definiti il presidente colombiano nell’ennesimo botta e risposta a distanza con Trump. La contesa continua.