Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  settembre 17 Mercoledì calendario

Rivalutazione pensioni, in 10 anni persi da 13 mila a 115 mila euro per il mancato adeguamento degli assegni sopra i 2.500 euro: ecco perché

Poco più di un quarto dei pensionati (il 21,9% di oltre 16 milioni) con redditi oltre 4 volte il trattamento minimo, vale dire oltre i 2.500 euro lordi, ha ricevuto una rivalutazione ridotta, o in alcuni casi quasi azzerata a causa del nuovo meccanismo di rivalutazione introdotto dal governo Meloni. 
Secondo il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, la perdita legata alla mancata rivalutazione sarebbe quantificabile nei prossimi 10 anni in almeno 13 mila euro; valore destinato a salire progressivamente fino ai 115 mila per i percettori di assegni oltre i 10 mila euro lordi (6.000 circa il netto). A fare i conti è uno studio di Itinerari Previdenziali e Cida, che analizza gli effetti sulle rendite dei meccanismi di rivalutazione delle pensioni applicati negli ultimi trent’anni, concentrandosi soprattutto sulle novità introdotte dalle più recenti manovre finanziarie.
«In trent’anni le pensioni medio-alte hanno perso oltre un quarto del loro potere d’acquisto: una pensione da 10 mila euro lordi al mese ha visto svanire quasi 180 mila euro, l’equivalente di un anno intero di assegno. È il simbolo di un sistema che punisce chi ha dato di più, mortifica i contribuenti più fedeli e incrina il legame di responsabilità tra generazioni», commenta Stefano Cuzzilla, Presidente di Cida. «Le pensioni non sono un privilegio, sono salario differito, il frutto di una vita di lavoro e tasse pagate».
«Rispetto alle persone in età attiva – ha spiegato il professor Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e curatore dello studio – i pensionati hanno meno possibilità di difendersi dall’inflazione, tanto che il mantenimento del loro potere d’acquisto è affidato quasi esclusivamente ai meccanismi di indicizzazione: ecco perché sarebbe innanzitutto importante avere regole stabili nel tempo e, ancora di più, eque».
Il governo Meloni è intervenuto sul biennio 2023-2024, prevedendo un meccanismo che, se da un lato rivalutava pienamente le pensioni sociali, gli assegni sociali e le pensioni al minimo, dall’altro tagliava la rivalutazione delle prestazioni oltre 5 volte il minimo. Nel dettaglio, le percentuali di rivalutazione previste sono state: del 100% per i beneficiari di prestazioni fino a 4 volte il minimo, incrementato appunto di un punto e mezzo percentuale in più rispetto all’inflazione effettiva; dell’85% per le pensioni da 4 volte a 5 volte il minimo, del 53% per gli assegni tra le 5 e le 6 volte il minimo, al 47% tra le 6 e le 8 volte, al 37% tra le 8 e le 10 volte e al 32% per gli importi superiori. Valore, quest’ultimo, ulteriormente ridotto al 22% per l’anno successivo. 
Cida: «Punito chi versa il 46% dell’Irpef»
«Siamo di fronte a una contraddizione evidente –  sottolinea Cuzzilla -. 1,8 milioni di pensionati con redditi da 35 mila euro in su, poco meno del 14% del totale, garantiscono da soli il 46,33% dell’Irpef dell’intera categoria, eppure sono proprio loro i più colpiti dai tagli e dalla mancata rivalutazione. Al contrario, chi ha versato pochi o nessun contributo è stato pienamente tutelato dall’inflazione. Sostenere i più fragili è un dovere, e la classe dirigente non si è mai sottratta a questa responsabilità, ma diventa un’ingiustizia quando la solidarietà ricade sempre sugli stessi mentre l’evasione resta impunita».