Avvenire, 16 settembre 2025
I soldi spediti dai «disertori» del Nord: le rimesse che (ri)uniscono le due Coree
«Nei primi anni dopo il mio arrivo in Corea del Sud, ho vissuto con un opprimente senso di colpa per aver lasciato la mia famiglia. Inviare denaro è il mio modo per mitigare quel senso di colpa e, allo stesso tempo, per prendermi cura dei miei cari, anche da lontano». La storia di Park è emblematica: nella sua sono raccolte molti destini. Nel 2012 Park fugge dal Nord. Una decisione che gli costa lo stigma di “disertore”.
Ripara a Seul, dove vive ancora oggi. Come tanti altri “disertori”, non ha mai reciso il legame che lo unisce ai suoi familiari. Anzi, lo ha coltivato. Nell’unico modo che gli è consentito: inviando denaro, nella speranza di aiutare chi è rimasto.
Non è il solo. Come riporta il “Guardian”, un sondaggio del Database Center for North Korean Human Rights ha svelato che su 362 “disertori” il 40% ha inviato denaro negli ultimi cinque anni in Corea del Nord, che resta oggi uno dei Paesi più poveri al mondo. È un esile e, al tempo stesso, ostinato filo con il quale Park resta attaccato alle sue radici, un modo per saldare la sua vita spezzata in due. Ma quel filo oggi è sempre più minacciato. Perché per attraversare la cortina di ferro che separa il Nord dal Sud – i due Paesi sono tecnicamente ancora in guerra e non esistono canali ufficiali per inviare rimesse – il denaro deve compiere un percorso tortuoso, rocambolesco, pericoloso. E illegale, perché vietato dal South Korean Foreign Exchange Transactions Act. Come scrive il quotidiano “Korea JoongAng Daily”, «nel processo sono coinvolti almeno quattro intermediari e addetti alle consegne. Un disertore in Corea del Sud invia il denaro a un intermediario con sede in Cina, che può attraversare liberamente il confine tra il Paese e la Corea del Nord e consegnare i fondi a un intermediario nordcoreano.
L’intermediario nordcoreano, che di solito ha l’autorità di eludere le misure repressive del regime, inoltra i fondi al corriere finale». Ogni intermediario guadagna «circa il 10% del denaro inviato», come commissione. Ma non basta. A rendere ancora più difficile l’“epopea” delle rimesse è il cambio di rotta deciso dalle autorità sudcoreane. Fino a due anni fa, Seul tollerava l’invio di denaro, considerandolo come una forma di “assistenza umanitaria”. Oggi invece l’imperativo è intervenire. A causa della repressione, il 60-70% dei collegamenti con il Nord «è stato interrotto e reso inservibile». Il risultato? Le commissioni intascate sono aumentate. Vertiginosamente. Non sempre poi tutto fila liscio. «Il sistema non è affidabile al 100 per cento», ha spiegato Jung, una donna di 50 anni, fuggita anche lei nel Sud. «Ho sentito – ha raccontato – di alcuni casi in cui gli intermediari hanno sequestrato il denaro dopo aver finto di consegnarlo alle famiglia». È possibile sanare questa situazione? Il partito di opposizione sudcoreano People Power sta lavorando a un disegno di legge per legalizzare le rimesse su piccola scala per scopi umanitari. Ma restano le ambiguità. Come scrive il “Guardian”, «con le relazioni intercoreane al loro peggior livello da anni, le reti informali delle rimesse rappresentano una delle poche finestre rimaste sulla vita quotidiana in Corea del Nord, e l’intelligence sudcoreana si affida da tempo alle informazioni che fluiscono attraverso queste connessioni». «Ogni volta che cambia l’amministrazione in Corea del Sud, ci hanno usato – protesta Ju Su-yeon, che insieme al marito ha contribuito a facilitare la fuga di oltre 2.500 nordcoreani –. Solo perché consideriamo la Corea del Nord casa nostra non significa che debbano poterci trattare come spie ogni volta che ciò fa comodo alle loro esigenze politiche».