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 2025  settembre 16 Martedì calendario

Il ritorno dei camalli

«Prima per caricare e scaricare una nave ci mettevo sette ore. Ora devo farlo in quattro». Genova, la città dei camalli. Nel 1978 sulla rivista Primo Maggio appare un articolo intitolato «I portuali di Genova» firmato dal Collettivo Operaio Portuale che racconta esattamente chi sono i camalli. «Associazione di lavoratori, serbatoio elettorale del Pci, duri nell’antifascismo, nel conflitto sindacale sulle banchine». Il ‘78 è anche l’anno del volantino «né con lo Stato, né con le Br», delle lotte sindacali e della militanza politica dall’interno della Compagnia Unica Lavoratori Merce Varia (Culmv). «I portuali avvertivano la consapevolezza che in futuro la meccanizzazione delle operazioni di imbarco-sbarco avrebbe mutato l’organizzazione del lavoro». Riccardo Degl’Innocenti, settantacinque anni, militante pacifista, conosce bene il mondo marittimo perché ci ha lavorato. Il santuario portuale era all’epoca un fortino della Cgil, conquistando con lotte e scioperi il salario garantito, l’autonomia operaia e bloccando il progetto di trasformazione del porto in azienda. Il Culmv aveva il monopolio delle operazioni tra navi e banchina. Oggi, quasi cinquant’anni dopo, cos’è rimasto di quel tempio operaio? «Sono entrati i privati, il fortino del sindacato è stato espugnato». Gli operai non marciano più compatti ma giovedì scorso davanti all’imbarco del porto Gnv c’erano più di mille persone riunite per organizzare lo sciopero generale del 22 settembre per la Palestina, contro Israele, Trump e il governo Meloni, «e se alle navi della Global Sumud Flotilla accadrà qualcosa prima, siamo pronti ad anticipare il blocco del porto» avvertono dal palco allestito per gli interventi.
Alla guida della protesta ci sono di nuovo i camalli, alcuni di loro sono anche a bordo delle barche di civili e attivisti che stanno navigando verso Gaza a rischio del loro arresto da parte dell’esercito israeliano. Maurizio, Gianluca, Roberto, Riccardo, Italo, sono i camalli di oggi. «Non mettere i nostri cognomi. Non abbiamo un buon rapporto con l’azienda». Cos’è cambiato rispetto a quel ‘78 che vi ha visto protagonisti delle lotte operaie? «Abbiamo tutti i Dpi (dispositivi di protezione individuali, ndr) perfetti. Casco, tute, scarpe, guanti. Ma che senso ha se bisogna andare veloci?». Il 5 febbraio 2025, muore schiacciato da un’elica da 2,5 tonnellate al bacino 2 delle riparazioni navali (Molo Giano) l’operaio di 36 anni, Lorenzo Bertanelli. Il mese dopo nella stessa azienda un altro morto. «Sempre ditta appalto privata». Il 18 dicembre 2024 muore il portuale di 52 anni Giovanni Battista Macciò, schiacciato tra due ralle (mezzi per lo spostamento dei container) al terminal Psa di Prà-Voltri. «Un errore umano. Però forse poteva accadere anche a me di sbagliare. C’è gran traffico in porto di notte. Si va veloci sempre. La formazione non è più adeguata, la fatica aumenta e con essa lo stress».
Nel ramo commerciale i dati della frequenza e la gravità degli incidenti sono più confortanti, ma la banchina è un luogo di lavoro ad altissimo rischio. Circa 3.500 gli addetti totali, tra personale amministrativo, terminalisti, autisti e camalli. L’età media soprattutto di questi ultimi è elevata e la carenza di personale operativo in banchina, dove si corre di più, è certificata. «La Compagnia ha approvato cento nuove assunzioni, ma non bastano». Come vi viene chiesto di fare in fretta? «Non sono espliciti. Te lo fanno capire. Senti la pressione. Io faccio il trattorista. Non mi dicono: “vai più veloce”. Piuttosto: “La nave parte alle nove e mezza, siamo in ritardo”. Oppure: “Prendi solo un caffè, non fare troppe pause”. E tu lo fai». Poi c’è chi fa rizzaggio: «Fisso il carico (container o veicoli, ndr) a una nave o a un pianale di carico, con cinghie, catene e tensionatori per garantire che rimanga stabile e sicuro durante la navigazione e la movimentazione». È faticoso? «La cosa più faticosa per me è che prima in un turno eravamo in tre-quattro. Ora capita di essere in due. Raramente in 4». Eppure le navi sono più grosse di prima, trasportano più carico. «Esatto! È colpa mia perché dimostro di potercela fare lo stesso in meno tempo e con meno personale? Forse dovremmo crollare a terra per la stanchezza e invece tiriamo avanti come muli». Tutti con contratto nazionale dei porti immagino... «Si ma sono i contratti di secondo livello che fanno la differenza e in questo non siamo tutti uguali nel porto». I contratti si rinnovano per settore: merci, bordo, banchina, uffici. «Gli addetti alla banchina nella nostra azienda sono 62, quando trattiamo valiamo per 62». E il riconoscimento di lavoro usurante? «Lo stiamo chiedendo da tempo ma non ci viene concesso. Se scarichi e carichi, fai il trattorista o il rizzaggio, sei costantemente all’aperto, con il sole, con la pioggia, se fa caldo o freddo, di giorno o di notte. C’è chi sta peggio fuori dai porti, certo, ma anche noi non ce la passiamo bene». Maurizio è il più grande: «Avevo 26 anni quando sono entrato, 1995, contratto di formazione. Ma sapevo con certezza che dopo due anni sarei passato a tempo indeterminato e infatti è andata così. Quando mi hanno stabilizzato ho immediatamente acquisito gli stessi diritti e lo stesso salario di chi c’era prima di me». Gianluca è il più giovane: «Sono entrato in porto nel 2017: sette anni con contratti part-time. I primi scadevano ogni sei mesi. Solo turni la sera perché con il mio contratto mi veniva pagata meno». Gianluca a settembre del 2024 è stato stabilizzato. «Dopo due mesi di scioperi con adesione totale, con la solidarietà della compagnia unica, devo dire. È questo che deve fare un sindacato». Maurizio, Gianluca, Roberto, Riccardo, Italo erano tutti iscritti alla Cgil. Anche se è sempre la Cgil il primo sindacato in porto, è successo qualcosa. «Noi e molti altri siamo usciti dai sindacati confederali e abbiamo aderito all’Usb. Nei porti italiani il sindacalismo di base non era mai entrato, Genova anche in questo ha fatto da apripista, dopo la stessa cosa è accaduta anche a Livorno, Trieste, Civitavecchia. È il sintomo che nei luoghi di lavoro si vive male. È tornata la stagione in cui vogliamo rivendicare i diritti. Smetterla con i compromessi».
Nel frattempo in porto sono entrati altri precari. «Con contratti peggiori del part time. Stagionali, a chiamata». Nel 2011 è nato il Calp Collettivo autonomo di lavoratori portuali, avevano tutti contemporaneamente la tessera Cgil, oggi hanno tutti quella Usb. Nel 2014 è il Calp ad organizzare le azioni in porto contro i carichi di armi: «Nel 2019 ci siamo rifiutati di caricare armamenti su una nave diretta in Yemen, in piena guerra civile». I camalli di Genova promettono che anche questa volta bloccheranno tutto. «E non saremo solo noi del Calp o dell’Usb, si uniranno tutti con qualsiasi tessera sindacale perché è una battaglia sentita in banchina davanti all’orrore a cui stiamo assistendo in Palestina». Alle loro assemblee sono tornati gli studenti. Come nel ‘73 quando al grido di «studenti e operai uniti nella lotta» si ritrovarono davanti ai cancelli della Fiat. È ancora presto per dire se è un nuovo incontro storico, ma è ciò che sta avvenendo, vale la pena non ignorarlo.