Corriere della Sera, 16 settembre 2025
Intervista ad Andrea Zalone
«Io non penso mai a me. Non parlo mai di me». Andrea Zalone, torinese, 57 anni, attore, autore, doppiatore, regista del film Il Giorno più bello con Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, soprattutto solida spalla televisiva di Maurizio Crozza, prova subito a schermirsi e a nascondersi dietro il mattatore e dissacratore del venerdì sera italiano. Ma non ci riuscirà. Si professa timido, dando la «colpa» a quello che il suo analista definisce il complesso di Mirafiori.
Cosa c’entra il quartiere periferico di Torino legato alla Fiat?
«Sono nato lì. Papà era impiegato alla compagnia nazionale dei telefoni, mamma casalinga, tre figli. Non eravamo né poveri né disagiati, però nemmeno ricchi».
La volevano ingegnere, invece ha fatto il comico.
«Dopo il liceo scientifico mi iscrissi al Politecnico, ero bravo in matematica. Dopo avere superato l’esame di analisi, mi accorgo che non capisco nulla di fisica, chimica, disegno, geometria. Vado in ufficio da mio padre per la confessione e ne esco col compromesso di giurisprudenza: per me fu una passeggiata formativa. Ricordo uno splendido esame col giurista Gustavo Zagrebelsky».
Però non fa l’avvocato. Decide di recitare.
«Entro in una scuola privata di recitazione, la stessa di Luciana Littizzetto. E succede una cosa miracolosa: scopro un fermento creativo strabiliante. Così do vita a un gruppo di cabaret surreale con alcuni amici che chiamiamo Le pause. La nostra comicità era un po’ contorta, mettevamo insieme polizieschi strampalati. Lì capisco che il mondo non era tutto ottagonale come le vie di Torino, ma che ci potevano essere più strade».
Lei dunque prende quella della recitazione?
«Ho iniziato con gli sceneggiati alla radio della Rai, in particolare quelli di Alberto Gozzi. Avevo un tono leggero, una bella voce, al doppiaggio mi sono trovato subito bene».
Doppiava soprattutto i serial killer.
«Non ho un timbro romantico. Ma da 18 anni presto la voce al protagonista di Tempesta d’amore, soap opera in onda su Rete 4 al mattino. Il mio sogno era di doppiare Sentieri, e per 18 mesi sono stato l’alter ego vocale di un suo personaggio. Mia madre, che era una fedele spettatrice, scoprì il mio lavoro guardando quella serie».
La recitazione con la sua faccia fu un fiasco?
«Ho recitato al Teatro Stabile e col Gruppo della Rocca. Però, quando dovevo andare in scena, sentivo di non possedere quel talento che hanno gli attori bravi i quali a un certo punto si divertono, sono nel loro brodo. Io invece non vedevo l’ora che finisse lo spettacolo».
Ai provini dunque la scartavano?
«Venticinque chili fa ero un bel ragazzo. Mi chiamavano per il ruolo del papà giovane. Mi presentavo in giacca e cravatta, riga da una parte, faccia da Ricky Cunningham, ma poi volevano boscaioli o giovani muscolosi. Rifeci il book, mi presentai ai provini per lo spot delle Morositas, ma dissero che per la pubblicità serviva gente espressiva».
Insomma, Andrea Zalone sta due passi indietro perché timido.
«È il fatto di essere nato a Mirafiori. Quando sono entrato nella Ztl mi sono sentito come un agente sotto copertura, ho la sindrome del truffatore, paura che mi scoprano. Meglio fare l’autore. Cominciai con il programma Convenscion grazie a Beppe Tosco, lì ho scoperto che occuparmi di cosa devono dire gli altri mi toglieva un peso».
Ha iniziato a scrivere per i reality con Giorgio Gori.
«Il primo in assoluto fu Indovina chi viene a cena, poi feci Bulldozer. Ho scritto per Enrico Bertolino, Caterina Guzzanti, per Zelig e la Gialappa’s Band, per Victoria Cabello, divenendo capo progetto».
Come si scrive per far ridere gli italiani?
«L’ironia non si insegna. È una lente che tu hai. Occorrono talento, curiosità, effetto sorpresa, capacità di capovolgere la realtà. Devi tendenzialmente individuare un bersaglio, avere voglia di raccontare una verità che faccia ridere. Si tratta di una sorta di deformazione mentale che ti spinge a individuare quella cosa che c’è nell’aria e che ancora non è stata detta».
Fuori dal centro
«Avevo la sindrome di Mirafiori: dentro la Ztl mi sentivo un agente sotto copertura»
Eccoci arrivati al suo ruolo di spalla di Crozza.
«Lui è il capo degli autori, ci sediamo a un tavolo e il 60% del lavoro consiste nel discutere, capire il nostro punto di vista sulla questione. Maurizio ha bisogno di un confronto forte, è il leader di noi otto autori, lui compreso. Era reduce da Rockpolitik con Adriano Celentano quando ci siamo incontrati su La7 e non ci siamo più separati. Il dialogo tra noi ha funzionato a partire dal personaggio del Corazziere del presidente Napolitano: da lì abbiamo scoperto tutti e due che ci divertivamo».
Siete percepiti come una coppia.
«Sì, nell’abitudine televisiva dell’ascoltatore, però quello eccezionale è lui, io mi limito ad aiutarlo».
Ancora la sindrome di Mirafiori?
«Il genio è lui. A me piace il mio ruolo, restituisco quello che può pensare il pubblico a casa di fronte alla mostruosità dei personaggi. È tutto scritto e più volte rivisto alla luce dei cambiamenti continui dell’attualità, però la nostra risata in onda è autentica, coincide col momento in cui prendi atto che la linea scelta fa ridere. Il nostro pubblico è pagante, quindi c’è sempre un po’ di tensione. Scopri se il lavoro funziona solo quando sei sul palco. Per rispetto del pubblico, noi recitiamo dal vivo, Maurizio non ha mai voluto la formula della registrazione di un programma televisivo».
Il suo personaggio prediletto?
«Mi piace scrivere Red Ronnie, per la sua comicità surreale. Magari risulta meno pop di De Luca. A Maurizio voglio più che bene, la nostra quotidianità è scandita da un lavoro intenso, che si intreccia con la vita. Litighiamo anche spesso, lui non vuole yes men allineati».
Un difetto questo suo Crozza lo avrà pure.
«Non molla mai, non gli sfugge nulla, è pignolo al massimo. Finché non ha capito cosa vada bene, non cede. Così nei monologhi riesce a dire qualcosa in cui la gente si possa riconoscere».
È vero che lei dipinge e cucina molto bene?
«Acquerelli e un buon sugo. Provo a dipingere e a cucinare ma senza velleità, per puro piacere. Sono bravo nel preparare le marmellate di kumquat. Mi diletto nel ping pong, organizzo ogni estate una Zalone Challenge con tanto di coppe».
Ha fama di ottimo sciatore e buon tennista.
«Mio padre adorava lo sci, a quattro anni mi portava sugli impianti dei Monti della Luna, lui saliva calzando pelli di foca, io con lo ski-lift. Forse è stata la sua impostazione di estremo sacrificio a farmi poi allontanare dallo sport».
Se sapesse che adesso lei pratica il golf.
«Lui sindacalista e comunista mi ucciderebbe. Però io lo amo perché è terapeutico, stai per quattro ore da solo su di un prato con la mazza in mano».
Nemmeno sua moglie Germana Pasquero la accompagna?
«Siamo sposati da 28 anni, lei è una doppiatrice bravissima, ha imitato anche la ministra Fornero e Livia Turco con grande successo. Ci divertiamo, siamo uniti da grandissima complicità. Ci conoscemmo in teatro e innamorammo follemente. Lei era madre single di un bimbo di appena sei mesi, Tommaso, che ho adottato. È stata un’esperienza bellissima crescere con loro due. Adesso è anche lui direttore di doppiaggio, ma non è nepotismo, semplicemente aveva questo mestiere nel Dna. Ero allo sbando dopo la perdita prematura di mia sorella. Lei e il bimbo sono arrivati come quando ti transitano davanti le liane mentre non sai più dove appenderti».
Zalone, vuole fare la pace con Mirafiori?
«Va bene, anche perché è lì che ho capito di poter risultare simpatico. L’altra mia sorella, quella gemella, aveva capelli biondi e occhi azzurri, era uno schianto. Io, più mostriciattolo, per farmi notare non potevo che puntare sull’ironia».