Robinson, 14 settembre 2025
Intervista a Giancarla Codrignani
Ha una versatilità invidiabile Giancarla Codrignani, 95 anni compiuti in luglio. Vive a Bologna, città dove è nata. Ama i classici latini e greci e ha insegnato lettere antiche al liceo e scritto libri di vario tenore. Si è dedicata alla politica sedendo in parlamento per tre legislature; oggi ha un blog di attualità politica e fa parte di un gruppo di teologhe attente agli sviluppi della Chiesa. Con una punta di compiacimento si definisce La vecchia signora narcisista che è poi il titolo di un suo libro edito di recente da Pendragon.
Non le pare che ci siano già troppi narcisisti in giro?
«Ho pensato che valesse la pena mettere in discussione il lato frivolo della vita. Chi scrive è difficile che abbandoni il proprio io. A me piace scrivere. Scrivere di sé può essere imbarazzante, ma non solo: può disturbare l’idea che gli altri hanno di te. A 95 anni il rischio è di autocommiserarsi. Invece penso sia importante autocomprendersi. Di qui un po’ di autoironia nel definirmi narcisista. Quanto al narcisismo vero e patologico, come stile della contemporaneità, mi fa orrore. È giusto che a occuparsene sia la psicoanalisi».
È mai stata in analisi?
«Non ne ho mai avvertito il bisogno e poi, fin da bambina, ho sempre avuto molte cose da fare».
Com’era da bambina?
«Direi cicciottella. Qualche coetaneo mi prendeva in giro. Ma poi finiva lì. Ero curiosa in tutto. Dicevo che da grande avrei fatto la maestra, come la mia adorata insegnante, Valentina, e che avrei sposato un pasticcere. Ho ricordi famigliari belli, di pomeriggi passati con la mamma e di giochi inventati».
Che donna è stata sua madre?
«Mio nonno, suo padre, era un medico condotto, amico di Giacomo Matteotti. Lodevole, certo, ma poco attento alla famiglia. Quando lui morì, la mamma venne a Bologna presso amici di famiglia. Voleva trovare un impiego e rendersi indipendente. Incontrò mio padre, lo sposò e divenne casalinga: fine delle ambizioni. Se glielo avessero detto prima, si sarebbe offesa».
Suo padre di cosa si occupava?
«Era tipografo. A vent’anni capì cosa arrivava con il fascismo. Si oppose. Venne picchiato e finì due settimane in ospedale. Continuò la sua opposizione prima in Giustizia e Libertà e poi iscritto al Psi clandestino. Il giorno della Liberazione di Bologna, il 21 aprile 1945, uscì di casa con il distintivo del Cln. Se lo tolse al ritorno perché lo vide esibito da gente che non ne era degna».
La politica ha bisogno dell’etica?
«Se l’etica non ci fosse la politica inaridirebbe. Occorre sapere cosa sia il giusto e una lezione, o meglio un aiuto, a me è giunto dal mondo classico».
Cosa ha scoperto con lo studio dei classici?
«Il valore fondante della lingua greca e latina e del pensiero che gli fu costruito attorno. Tuttavia, ad esser sincera, non so la ragione per cui scelsi gli studi classici.
Forse fu una decisione dovuta all’istinto e non me ne sono mai pentita. Anche se, quando ho insegnato, l’ho fatto in modo completamente diverso da come avevo studiato al liceo. Del resto, non poteva che essere così».
Perché?
«La vecchia scuola si mostrò inadeguata. Il Sessantotto ne aveva evidenziato contraddizioni e limiti. Per me quell’anno fu un inno alla speranza. Quelli che vennero dopo mi delusero. Gli anni Settanta furono un grido alla disperazione. La rabbia si trasformò in lotta armata. Mi chiedo se fu solo la cecità di quelle formazioni violente o fummo anche noi incapaci di prevenirne la follia».
Ha una risposta?
«Forse i padri e i partiti avrebbero dovuto fare di più, governare quel cambiamento che la società civile esprimeva».
Quegli anni come li ha vissuti?
«Insegnavo al liceo, latino e soprattutto greco, e mi interessavo alle proposte di riforma della scuola, ma erano gli studenti a farmi seguire da vicino le nuove tendenze. Certo, facevo normale vita di relazione: teatro, concerti, conferenze, cultura. Ma il grande interesse era soprattutto per il movimento delle donne, allora divise tra chi chiedeva “emancipazione” e chi pretendeva “liberazione”».
C’è differenza?
«Lo schiavo si libera, l’individuo si emancipa. E noi eravamo considerate soprattutto “schiave”. Per ciò che mi riguarda, seguivo l’onda popolare della più importante rivoluzione filosofica del secolo, che fu tale anche nel pensiero teorico. Rivendicare i “diritti di genere” poggiava allora sulla volontà di intraprendere una storia che ponesse fine al mondo patriarcale e agli effetti del suo potere. Sono così strana da essere ancora femminista».
Strana perché?
«A 95 anni si dovrebbe pensare ad altro».
È stata eletta nella Sinistra indipendente. Come è finita a occuparsi in prima persona di politica?
«Il greco un po’ c’entra perché mi stavo interessando all’ellenismo cosmopolita quando scoppiò la guerra del Vietnam. Conobbi Lelio Basso e mi nacque un grande interesse per i problemi internazionali e per i diritti, l’America Latina allora era un continente pieno di dittature e Basso mi affidò la sezione italiana della Lega Internazionale per i Diritti dei Popoli. Quando arrivò il “compromesso storico”, i temi per i quali ero conosciuta – la cultura progressista, l’internazionalismo, la cultura delle donne, l’appartenenza cattolica post-conciliare interessarono il Pci».
Lei era comunista?
«Mai stata. Perché ancora memore dei conti aperti di mio padre per la scissione del 1921. Comunque a Bologna il Pci governava bene e per le riforme della scuola seguivo Lucio Lombardo Radice. Trovai persuasiva la proposta Berlinguer, che nel “compromesso storico” individuava l’incontro tra la cultura comunista, quella socialista e quella cattolica. Su questa apertura progressista è nata Sinistra indipendente».
Non eravate condizionati dalle scelte del Pci?
«Mi chiede se fossimo realmente indipendenti?
Assolutamente sì. La prima volta che presi la parola in aula fu in opposizione al Pci: si trattava del caccia bombardiere Tornado e votai contro un’acquisizione militare nuova e non sufficientemente discussa dal Parlamento».
In Parlamento di cosa si occupava?
«Feci parte della commissione Esteri – mi specializzai ininterrogazioni sui diritti umani – e Difesa. Furono mie battaglie l’obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio e il commercio delle armi. Oggi un tema che mi angoscia».
Ha frequentato personaggi importanti della storia politica del dopoguerra: Altiero Spinelli, Lelio Basso, Stefano Rodotà. Che ricordo ha?
«Onorata dall’amicizia personale con tutti e tre: Altiero un visionario pieno di concretezza; quanto a Basso mi insegnò che la vera questione dei nostri tempi non è il conflitto est/ovest, ma quello nord/sud; Stefano mi fu politicamente congeniale. Grande maestro di diritto e grande amico».
C’è chi oggi rimpiange il vecchio Pci. Perché secondo lei è morto?
«Il problema non è la sua morte. Semmai perché non è morto prima».
Ossia?
«Dopo la scomparsa di Berlinguer il partito entrò in una lunga agonia. Berlinguer fu capace di coinvolgere le forze e i valori della società civile. In pochi si resero conto che il suo funerale, cui sembrava mancasse il coro greco tanto è stato maestosamente tragico, fu in realtà il funerale del partito».
Lei dice fu in pratica una morte annunciata.
«Dico che fu un errore aver atteso per dieci anni la caduta dell’Urss: i comunisti per primi sapevano che era finita».
Immagino che oggi non avrebbe più senso una
sinistra indipendente.
«Certo. Peccato non aver colto il messaggio quando la sinistra indipendente c’era. Il partito cedeva posti in Parlamento ai non comunisti (quando sono uscita alla Camera eravamo 20, al Senato credo 17) che, con i loro scritti e la presenza nei media, portavano consenso a un partito che si apriva agli interessi della società civile».
Cosa ha imparato negli anni trascorsi in Parlamento e perché oggi conta molto meno?
«Non capivo Pasolini quando definiva le istituzioni “commoventi e misteriose”. Stando a Montecitorio ho imparato a “sentirle”, come dovrebbe essere per tutti.
Non è necessario essere eletti per capire. Ma tocca al governo e ai partiti mostrare coerenza per il bene comune attraverso il buon uso delle istituzioni. Cosa che oggi non avviene più visto l’utilizzo strumentale, o meglio servile, che se ne fa».
Che idea ha della democrazia e di come si è ridotta?
«Mi rattrista, proprio perché l’ho servita. La gente non va a votare e, se vota, vota lo schieramento che “piace” e diventa populista a proprio danno. Oggi sono a rischio lo Stato di diritto, i valori costituzionali e in particolare l’Europa di Spinelli: maltrattata, divisa, indebolita e impaurita».
Lei scrive che il “me ne frego” di Mussolini è stato sostituito dal “Vaffa” di Grillo. Che passaggio fu?
«Traumatico. Con la fine dei partiti, nel 1994 siamo approdati al qualunquismo dell’antipolitica. Un dato è eloquente: da quando votava il 93% dei cittadini, oggi si è scesi sotto il 50%. Sono finite le ideologie ma non sono arrivate le idee. La politica è scivolata nella personalizzazione di leader autoreferenziali, cellulari e social hanno completato l’opera. Se si è decostruito, bisognerò pure incominciare a costruire qualcosa o lasciamo che si stabilizzi solo la destra reazionaria?».
Alcune donne sono state importanti nella politica italiana: Nilde Iotti, Tina Anselmi, Adele Faccio, Emma Bonino, Susanna Agnelli. Tutte hanno lavorato in parlamento. Cosa le univa al di là delle differenze politiche?
«Erano una novità e in realtà ponevano il problema di oggi: come non cedere al dominio maschile. Non illudiamoci sulla parità solo perché sia il capo del governo che il capo dell’opposizione sono donne. Ursula von der Leyen è un pessimo esempio di sottomissione alla cultura patriarcale e schizofrenica di Trump».
Ho letto che si considera una teologa, in che senso?
«Anche se non sono un’accademica, sono iscritta al Coordinamento delle teologhe italiane. Ritengo mio dovere cercare di capire le ragioni della mia appartenenza. La filosofia fa il suo mestiere ma la teologia sostiene la conoscenza del limite. Esistono le religioni e le chiese: possono riferirsi ai messaggi originari ma possono anche essere strumenti di potere. Infatti le donne non hanno ancora cittadinanza nella Chiesa. La gerarchia celibataria ha bisogno di imparare dalle teologhe e dalle suore, che attualmente sono il meglio del femminismo, come condurre le chiese nel futuro».
A 95 anni come ci si sente?
«Nonostante la mia veneranda età continuo a non sapere perché si nasce e perché si muore. La cosa più triste è perdere gli amici, bene prezioso. Ogni volta è un pezzetto di cuore che scompare. Ma va così. Mi chiede come mi sento. Vivo la stagione delle limitazioni fisiche, dell’insicurezza nel passo, del sospetto che dovrò farmi aiutare. Si dice “bisogna essere filosofi”, ma la filosofia fatica anch’essa».
Che definizione darebbe della vecchiaia?
«Come per tutte le stagioni: altra esperienza, altra conoscenza. Occorre un po’ di umiltà per affrontarla».
Quali le sue paure, i suoi dubbi?
«Banalmente si ha paura di cadere e rompersi l’anca. Ma non ho paura della morte. Finché ci sono io, non c’è lei, diceva un celebre filosofo dell’antichità. Dopo c’è solo lei. Che nessuno sa cos’è».
Ha poi trovato il suo “pasticcere”?
«Troppo indipendente per una storia duratura. Qualche legame importante sì. In particolare uno che, da quando non c’è più, mi dico: peccato Giancarla, forse avresti dovuto sposarlo».