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 2025  settembre 13 Sabato calendario

"Da ragazzo sognavo di essere scrittore Ma far ridere la gente mi veniva facile"

Intervista pubblicata su Tuttolibri nel 2011
La casa di Giorgio Faletti, ad Asti, è piena di chitarre. Sta proprio nel centro, in un palazzone post-razionalista che si affaccia sul cuore medioevale della città, anche se lui ci tiene a ripeterti che «sono nato e rimasto in periferia». Le chitarre sono elettriche e rigorosamente vintage, le ha comprate per anni con la speranza «di trovarne una che sapessi suonare bene»; loro, perfide, non gli hanno «mai corrisposto». Alla porta suona il corriere con la copia della traduzione danese di Appunti di un venditore di donne, che a marzo uscirà in America per Farrar, Strauss & Giroux, ma nella vita mica si può avere tutto. Forse c’è una punta di spleen nelle giornate astigiane; però, avvisa lo scrittore, «io sono meteoropatico, basta una mattina grigia e mi deprimo. All’Elba è diverso, anche quelle brutte sono “belle giornate”, la pioggia cade sempre di traverso, gli olivi, il golfo, le onde che si frangono comunicano energia». Adesso ride: frangono è un verbo «che odia», ma ormai l’ha detto.
La casa sull’isola e la casa in provincia sono i due poli della sua vita di scrittore, anche se non andrebbe trascurata New York, dove per esempio sono ambientati i thriller. Memorie di un venditore di donne, poi, si svolgeva a Milano, la città del successo come attore comico. Ma ora anche il nido piemontese è diventato un libro. Con Tre atti e due tempi, uscito ieri per Einaudi, Faletti affronta il romanzo breve, al di fuori dei generi. È la storia di un ex pugile, magazziniere in una squadra di calcio col figlio campioncino e idolo dei tifosi, che scopre una brutta storia di scommesse clandestine proprio quando si deve giocare la partita decisiva per la promozione in serie A. La storia di un eroe malmostoso e solitario – che infatti risolve tutto da solo – con brutti ricordi alle spalle. Di un uomo giusto senza retorica, un duro che sa commuoversi senza farlo vedere.
Uno che sta in provincia, magari fra la via Emilia e il West, come cantava Francesco Guccini? «Oh sì, l’immagine mi piace. È una citazione che uso sovente. Ho sempre amato le persone che dopo troppi scontri frontali hanno fatto fatica a mettere insieme i pezzi, i cubi di Rubik umani. E poi cose del genere possono capitare solo in provincia». In questo caso è una provincia piemontese. «Ho preso un pezzo di Asti, di Casale, di Vercelli. Ho intitolato lo stadio allo zio della mia ex moglie, Geppe Rossi, mitico portiere del Casale, ho usato il ristorante qui sotto casa, del mio amico Fabio Roero, e anche il nome di un pugile che conosceva mio padre, Nino Manina. Aveva talento, ma ebbe poco successo. Restò qui, come tanti. Oltretutto amava fare a botte con la gente in divisa, e questo non lo ha certo aiutato».
Anche Silvano detto Silver, il suo protagonista, faceva a botte, e all’inizio gli era andata molto male. È stato maltrattato dalla vita ma, davanti alla prova decisiva, non si risparmia. «Se facessero un film non mi dispiacerebbe interpretare il suo ruolo» confessa lo scrittore. Perché il mondo del calcio? «Perché ne puoi parlare anche se non l’hai praticato, a differenza di altri sport». Il calcio come linguaggio universale? «Mi sembrava lo sport giusto. Però mi ero prefisso di scrivere un romanzo ambientato sì in questo mondo, ma senza che il calcio in quanto tale avesse un ruolo decisivo». Non lo sport in sé, ma i calciatori e tutto ciò che li circonda come tipi umani, come quelli con la «vita da mediano» che ha conosciuto da ragazzo.
«Era il calcio inteso come lavoro di persone normali. Ho avuto la fortuna di vivere in un luogo dove c’erano personaggi che sarebbero piaciuti a Fellini, ed erano veri». Poi se n’è andato per trasformare in un lavoro retribuito il ruolo di Romeo che faceva in una parodia shakespeariana legata al Palio di Asti. Lo aspettava il Drive-in. «Ma il primo sogno da ragazzo era di diventare uno scrittore. Far ridere la gente è la scelta più facile, quando hai il sangue che bolle nelle vene e le tempeste ormonali in corso». Gli scrittori sono meno sexy. «E gli attori hanno bisogno dell’applauso giornaliero, come di una droga». È finita che si è stufato? «No, è stata la tecnologia a restituirmi la scrittura. Nel 94 mi regalarono una delle prime macchine col display. Mi entusiasmò la velocità, cominciai a scrivere racconti. E quando li feci leggere ad Alessandro Dalai, che mi aveva pubblicato un libro “da comico” la risposta fu che ci voleva un romanzo».
Era un incoraggiamento o un modo per dire di no? «Forse lui pensava di non rivedermi mai più. Io avevo nei cassetti dei soggetti cinematografici rifiutati perché troppo ambiziosi, roba da Spielberg come disse un produttore. Uno si intitolava Io Uccido. Fu un vortice. Mi svegliavo sempre più presto al mattino, per andare al computer e proseguire con le avventure dei miei personaggi». A proposito del «tonante Dalai», come lo chiama nei ringraziamenti in fondo al libro; ha per caso deciso di cambiare editore? «L’Einaudi mi ha offerto la collocazione ideale per un libro come questo. Mica sono Valentino Rossi, che quando cambia scuderia si porta dietro cento meccanici. Il prossimo romanzo sarà ancora con Dalai». —