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 2025  settembre 15 Lunedì calendario

Un terzo degli italiani dà la colpa a Netanyahu. E quattro su dieci vogliono lo Stato di Palestina

C’è una guerra a migliaia di chilometri da noi che divide profondamente l’opinione pubblica italiana: è quella in corso a Gaza. E se i numeri di un recente sondaggio firmato Only Numbers ci dicono molto sulla percezione della crisi in Medio Oriente, ci raccontano ancora di più su chi siamo noi, oggi, come Paese. Il 63,8% degli italiani ritiene la situazione «gravissima».
Una maggioranza netta con al suo interno fratture profonde. Tra chi si schiera a sinistra l’allarme è pressoché totale: quasi il 90% definisce la crisi senza precedenti. Sul fronte opposto, tra i sostenitori dei partiti di governo, il termometro emotivo è più tiepido, più cauto, in alcuni casi quasi distaccato, come ad esempio per gli elettori di Fratelli d’Italia che per il 46,2% ritengono la situazione seria, ma senza potersi esporre più di tanto perché si sentono privi di elementi validi per poter esprimere un giudizio. Tuttavia, è sulla questione delle responsabilità che si misura la vera polarizzazione politica. Il 32,3% degli italiani attribuisce le principali colpe a Israele, mentre il 29,5% preferisce una lettura equidistante, che chiama in causa sia Israele che Hamas.
La mappa politica qui è eloquente: il centrosinistra è più propenso a puntare il dito contro Tel Aviv, mentre Movimento 5 Stelle, Azione e i partiti di governo scelgono preferenzialmente il registro della «responsabilità condivisa». Da notare il dato che spicca ancora una volta tra gli elettori di Fratelli d’Italia: il 31,7% individua in Hamas l’unico responsabile del conflitto. Numeri che parlano di convinzioni profonde, ma anche di sguardi ideologici che spesso superano la complessità dei fatti. Eppure, dietro questi giudizi si nasconde una domanda urgente: che idea ha l’opinione pubblica della Giustizia, della pace, della responsabilità in tempi di guerra? Una risposta, forse, la troviamo osservando ciò che gli italiani auspicano per il futuro. Il 40,6% si dichiara favorevole al riconoscimento di uno Stato palestinese con piena sovranità.
Una posizione che, nonostante il caos, le macerie e i morti, punta ancora sulla diplomazia, sul diritto internazionale, sulla costruzione di un nuovo equilibrio. A fare da contraltare, il 21,9% che preferirebbe un’amministrazione internazionale temporanea, opzione che raccoglie consenso soprattutto tra gli elettori di Lega, Fratelli d’Italia e Azione. Come a dire: meglio una tregua gestita da terzi, che la nascita immediata di uno Stato troppo fragile per stare in piedi da solo.
Tuttavia, ogni bomba che cade oggi semina rancore per domani. Anche quando un’azione militare viene motivata come «difesa», non è immune dal generare nuove ferite, nuovi nemici, nuove generazioni cresciute nel dolore e nell’odio. Continuare a sparare ogni giorno è difficile che possa portare ad un sentiero di pace, ma più facilmente a genealogie di odiatori, figli del trauma e della vendetta. E quando l’odio diventa eredità, la pace si fa sempre più lontana… Anche con due Stati e ogni riconoscimento possibile.
Poi c’è il cosiddetto “Progetto Riviera": l’idea, circolata in ambienti israeliani, di trasformare Gaza in una destinazione turistica marittima, dopo la fine della guerra. Il 42,8% degli italiani lo considera inaccettabile, giudicandola una proposta che cancella la sofferenza di un popolo, riducendo tutto a un’operazione immobiliare. Eppure, anche qui si registra una minoranza significativa – il 27,7% degli elettori di Fratelli d’Italia – che lo legge come un’opportunità di sviluppo e pacificazione. Pacificazione, sì, ma a quale prezzo? E soprattutto per chi? Emerge un altro elemento che merita attenzione. In questo lungo e tragico percorso, secondo la maggioranza degli italiani, una responsabilità politica grava in maniera particolare sul primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu.
Per la maggioranza dei cittadini, infatti, è lui ad aver scelto la linea della forza, ad aver ignorato le crepe interne del Paese, ad aver alimentato una spirale di scontro che oggi non mette più in discussione solo la sicurezza di Israele, ma anche la sua reputazione e la sua stessa identità democratica. Anche chi si sente vicino ad Israele si sente frastornato. L’accusa per il primo ministro israeliano non è solo quello di aver radicalizzato il conflitto con le sue scelte, ma di aver messo in discussione Israele stesso, la sua credibilità internazionale, il suo futuro come Stato che possa convivere in pace con i suoi vicini – visti i 7 fronti di guerra aperti -. Prima o poi, la storia presenterà il conto.
I numeri di questo sondaggio offrono una lente potente per guardare allo specchio la società italiana. Quello che emerge è un Paese che riflette, giudica – a volte senza avere tutte le informazioni a disposizione, ma semplicemente per sentito dire – e si divide. Un Paese in cui la geopolitica è diventata una questione identitaria, in cui la solidarietà si misura in larga parte in base all’appartenenza politica. E in cui, troppo spesso, sembra dimenticare che dietro ogni posizione presa ci sono vite umane in gioco. La guerra si sa, è sempre una vera tragedia, ma è anche uno specchio e da come lo guardiamo si capisce molto di ciò che siamo diventati.