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 2025  settembre 15 Lunedì calendario

Gli indiani & l’America, la scalata «soft» degli ex invisibili che puntano a diventare la nuova classe dirigente

Quando, nell’autunno del 1962 nell’università di Berkeley, capitale della protesta studentesca per i diritti civili, Shyamala Gopalan, studiosa indiana di endocrinologia, rimase affascinata dai discorsi sulle diseguaglianze sociali e poi si innamorò dell’economista giamaicano Donald Harris col quale l’anno dopo concepirà Kamala, futura vicepresidente degli Stati Uniti, gli indiani d’America erano appena 12 mila.
Shyamala, intelletto brillante, era una rara eccezione: fino alla metà degli anni Sessanta l’immigrazione negli Usa fu quasi esclusivamente di origine europea. E fin dall’inizio del Novecento gli indiani erano stati messi al bando come i più sgraditi tra gli asiatici che tentavano di entrare nel Paese.
Sono bastati pochi decenni – dopo l’Immigration Act col quale nel 1965 il presidente democratico Lyndon Johnson fece cadere tutte le barriere – per fare degli indiani d’America una comunità numerosa (sopra i 5 milioni, superati anche i cinesi), ma soprattutto di enorme influenza nell’economia, nella tecnologia, nella medicina e, ormai, anche nella politica. Con un peso nella cultura e perfino in cucina: a New York regnano Vijay Kumar del ristorante Semma (ha appena vinto il James Beard Award come migliore chef del 2025 nello Stato, l’Oscar della cucina) e lo «stellato» Michelin Vikas Khanna, mentre Maneet Chauhan, donna chef, dopo aver aperto vari ristoranti a Chicago, Nashville e New York, è divenuta una celebrity nazionale con le sue trasmissioni televisive.
Insieme agli scrittori, come Jhumpa Lahiri, registi (Manoj Shyamalan) e musicisti (Zubin Metha è stato per 13 anni, un record, direttore della filarmonica di New York), i grandi cuochi – come Kumar che serve nel Village speziatissime ricette del Tamil Nadu come il Dosa Gunpowder anche a celebrity come Jennifer Lawrence, Will Farrell e Michael J Fox – contribuiscono a far crescere il soft power degli indiani d’America, alimentato anche da scienziati e figure quasi eroiche come quelle delle astronaute: Sunnita Williams, a lungo comandante della Stazione spaziale internazionale sulla quale ha trascorso più di un anno in due diverse missioni. E Kalpana Chawla, morta nel 2003 nell’esplosione dello shuttle Columbia al rientro nell’atmosfera.
Miscela indispensabile per far accettare al resto della popolazione la conquista di posizioni di enorme potere economico, a partire dal campo delle tecnologie digitali.
Qui l’avanzata di questa comunità è impressionante: sono guidati da indiani d’America i giganti di big tech, da Microsoft, con Satya Nadella ad Alphabet-Google con Sundar Pichai, fino ad Arvind Krishna di IBM. Ma hanno capi indiani aziende come Adobe, Hotmail, Palo Alto Ventures. Un fenomeno finito sotto il microscopio di accademie e grandi società di consulenza. Secondo un’indagine di un anno fa del Boston Consulting Group, sulle 648 unicorn (start up con un valore di almeno un miliardo di dollari) censite nel 2024, 72 sono fondate e guidate da indiani.
L’ultima stella a brillare è quella di Aravind Srinivas, cresciuto, al suo arrivo dall’India, sotto l’ala di Yoshua Bengio, genio dell’intelligenza artificiale. Poi, dopo il Phd in machine learning all’università di Berkeley e periodi di lavoro per Google e OpenAI, il guanto della sfida lanciato ai giganti dell’AI creando con Perplexity: un modello ibrido che, usando le varie tecnologie disponibili sul mercato, riesce ad essere più efficace del motore di ricerca di Google e a dare risposte più affidabili di quelle di ChatGPT perché indica ogni volta le sue fonti.
Perplexity conquista una sua nicchia di mercato e quando Apple e Facebook cercano di comprarla, Aravind respinge le offerte: vuole mantenere l’azienda indipendente e ci riesce anche grazie a investitori di rango come SoftBank, Nvidia e Jeff Bezos, il fondatore di Amazon. Sorprendendo chi considera Perplexity un fuoco di paglia, una pulce destinata a soccombere tra i giganti, Srinivas a gennaio offre di fondersi con TikTok, nei guai negli Usa per via della proprietà cinese. Pechino rifiuta, ma Aravind è un vulcano: a luglio offre ad Alphabet-Google 34,5 miliardi di dollari per il suo browser Chrome che il gruppo sembrava destinato a dover cedere dopo la condanna per atti monopolistici. Ma alla fine il giudice Amit Mehta (indiano pure lui) ha graziato Pichai. Aravind, attivissimo come imprenditore ma anche come tecnologo, non è un caso isolato: gli indiani d’America sono anche un’avanguardia scientifica. Da Subra Suresch, che fu nominato da Barack Obama capo della National Science Foundation, principale strumento governativo di sostegno per la ricerca e l’istruzione scientifica, ad Arati Prabhakar: per anni direttrice della Darpa, l’agenzia del Pentagono che selezione le tecnologie più avanzate per la difesa, per poi passare alla Casa Bianca come capo della ricerca scientifica. È stata lei a sviluppare le politiche di Joe Biden per l’intelligenza artificiale e la ricerca contro il cancro. Ma ci sono anche scienziati che stanno aprendo nuove strade per la medicina come Navin Varadarajan, docente di ingegneria biomolecolare a Houston e apripista nello sviluppo di terapie, che spingono il sistema immunitario a produrre cellule T capaci di distruggere quelle tumorali. Molte le innovazioni anche in campo medico e chirurgico, come quelle del tandem italo-indiano composto da Inderbir Gill della Southern California University e Michele Gallucci, due urologi di grande fama, che hanno creato nuove tecniche operatorie mininvasive e sono stati pionieri nell’uso della robotica in sala operatoria. A maggio il chirurgo venuto dal Punjab ha eseguito il primo trapianto di vescica.
Ma ci sono anche scienziati creatori di prodotti di consumo che usiamo tutti i giorni come la tv ad alta definizione (dobbiamo a tecnologi indiani i processori per HDTV). Molti altri sono i cervelli che lavorano nella ricerca pura: da uno studio del 2023 emerge che il 13 per cento delle pubblicazioni scientifiche redatte dagli accademici negli Stati Uniti sono di autori indiani.
È il fenomeno del brain drain del quale beneficia l’America (anche se Trump e i Maga faticano a riconoscerlo) mentre fa disperare i Paesi che perdono questi “cervelli in fuga”.
Narendra Modi dovrebbe essere il più preoccupato, vista l’entità della diaspora indiana. Invece il premier ora benedice questo flusso per il quale ha anche coniato uno slogan: da brain drain a brain gain. Cioè i cervelli che se ne vanno non sono perduti ma diventano una rete che fa crescere l’influenza indiana nel mondo. Nel caso degli Stati Uniti non è difficile capire a cosa si riferisca Modi, visto che i presidi indiani non sono solo nella tecnologia ma anche in tutta l’economia e, ormai, anche nella politica: per molti anni la multinazionale PepsiCo è stata guidata con polso fermo da un’indiana, Indra Nooyi, mentre Vikram Pandit è stato Ceo del gigante bancario Citigroup. 
Ora a guidare la Banca Mondiale è Ajay Singh Banga, un banchiere indiano di etnia sikh, naturalizzato americano nel 2007, che in precedenza è stato capo di Mastercard e anche presidente di Exor, la holding della famiglia Agnelli. FedEx, gigante della logistica, è guidato da Raj Subramaniam. Ma il soft power del quale l’India di Modi beneficia, è fatto anche di idee economiche e visioni filosofiche come quelle dei Nobel per l’Economia Amartya Sen, tuttora attivo ad Harvard, e Abhijit Banerjee. Mentre grande influenza l’hanno anche avuta, come docenti universitari e capo economisti del Fondo Monetario, Gita Gopinath e Raghuram Rajan (che poi, per alcuni anni è tornato in India da governatore della Banca centrale).
Un potere che si traduce in grosso contributo alla ricchezza del Paese e anche alle entrate fiscali (gli indiani sono l’1,6% della popolazione, ma versano il 6% delle tasse incassate dal Tesoro), e anche in peso politico. Apripista è stato Bobby Jindal che divenne governatore repubblicano della Lousiana quando (2008) Obama fu eletto presidente. Poi Nikki Haley (all’anagrafe Nimrata Randhawa, nata in Carolina da famiglia sikh) governatrice del South Carolina e ambasciatrice Usa all’Onu, prima di sfidare Trump nella corsa alla Casa Bianca. Insieme a un altro candidato indiano: l’imprenditore (nato a Cincinnati da genitori indiani) Vivek Ramaswamy. E poi, come abiamo visto, Kamala Harris, di orgine indocaraibica, sfidante democratica di Trump dopo essere stata vicepresidente. Mentre in Congresso sono almeno cinque i parlamentari di origine indiana di peso: da Ro Khanna, voce politica del mondo della Silicon Valley a Pramila Jaypal, bandiera della sinistra radicale. Ma adesso, mentre un’indiana, Usha Vance, è arrivata alla Casa Bianca come second lady (moglie del vicepresidente), tutti gli occhi sono puntati su Zohran Mamdani, politico ugandese di origini indiane naturalizzato americano, di religione musulmana, che ha vinto a sorpresa, con una piattaforma socialista, le primarie democratiche ed è in pole position per essere eletto, tra due mesi, sindaco di New York. Con l’appoggio entusiastico dei giovani, la freddezza del suo stesso partito e Trump che già gli dichiara guerra. Intanto sull’altra costa dell’America un altro indiano, l’imprenditore della Silicon Valley Ethan Agarwal, si candida a governatore della California rifiutando ogni accostamento con Mamdani: «Io sono un democratico che crede nel capitalismo». Una comunità viva, dinamica, proiettata verso il futuro. Ma che si porta inevitabilmente dietro qualche scoria della struttura piuttosto arcaica di una società indiana nelle quale le caste pesano ancora: non sarà un caso se Nadella di Microsoft, Pichai di Google, Indra Nooyi, ex di Pepsi e anche la madre di Kamala sono tutti bramini tamil, la casta più elevata.