Corriere della Sera, 15 settembre 2025
Intervista a Vittorino Andreoli
Professor Vittorino Andreoli, da Erba a Garlasco pare che il nostro tempo sia afflitto da un’ansia di «scavo» nei crimini passati.
«Lo chiamerei più banalmente “fascino del male”. E siccome viviamo in un presente che alla comprensione preferisce il giudizio, ci piace diventare noi stessi giudici dei processi».
E lei, da psichiatra, il male lo ha conosciuto davvero.
«Anche sulla mia pelle. Sono nato il 19 aprile del 1940, meno di un mese dopo l’Italia entrava in guerra. Il mio primo ricordo è di paura: io in braccio a mia madre che correva nel rifugio anti-bombe».
È anche per questo che nel suo ultimo libro, «Ciascun uomo può cambiare» lei lancia un monito: questa civiltà potrebbe scomparire e anche in fretta?
«Sì, perché sono vecchio, ho vissuto tanto e so riconoscere quando tanti principi vengono a mancare: il rispetto per la vita, le relazioni, la bellezza».
Eppure lei stesso, da studioso del cervello umano, sa che la nostra capacità di cambiare testa non ha fine.
«No, il meccanismo delle cellule cerebrali che si modificano attraverso l’esperienza non diminuisce con l’età. Ecco perché non bisognerebbe mai dire, in generale, nella vita “Tanto non cambia niente”».
Qual è stato un cambiamento importante, una «sliding door» della sua vita?
«Quando mi offrirono una cattedra full professor ad Harvard e dissi di no».
Perché?
«Per amore».
Racconti.
«Ero già sposato con Laura, avevamo una bambina di pochi mesi e un’altra in arrivo. Mia moglie mi aveva raggiunto negli Stati Uniti e una sera tornai a casa con la notizia: “C’è la cattedra”. Ma lei non se la sentì di restare lì e mi rispose: “Sono felice per te, ma io e le bambine torniamo in Italia”. Così decisi: torno anche io, ma vado in manicomio».
Nasce così la lunga fase della sua vita accanto a quelli che lei – con amore – definisce ancora oggi «i miei matti».
«Erano gli Anni Settanta, i manicomi erano ancora luoghi di sofferenza. Io decisi che nel mio ospedale non ci sarebbero stati mezzi di contenimento».
Vale a dire le camicie di forza?
«Sì, allora era normale. Un giorno raccolsi tutte le camicie, le cinture di cuoio e gli strumenti che si usavano per legare i malati. Feci un mucchio e accesi un enorme falò. Gli infermieri mi guardarono allibiti».
Come scrive nel suo libro, coltivare le relazioni è uno dei principi della nostra civiltà.
«Mi sono sempre rifiutato di trattare i malati con la coercizione. Una volta mi mandarono a chiamare con urgenza, c’era un uomo che stava spaccando tutto nella stanza dove lo avevano rinchiuso con la forza. Arrivai e diedi ordine di aprire quella porta. Gli infermieri mi supplicarono: “È pericoloso”. Non sentii ragioni».
Non aveva paura?
«Sì, ma sentivo che era necessario entrare. Così feci. Entrai e prima ancora che lui si accorgesse di me cominciai anche io a spaccare tutto assieme a lui: sedie, tavoli, letto. L’uomo si calmò. Da allora si fece promettere che la mia prima visita quotidiana in ospedale sarebbe stata da lui».
Era difficile scardinare la mentalità coercitiva?
«Ma pensi che quando arrivai al manicomio di San Giacomo (a Verona, ndr.) scoprii che gli infermieri tenevano il libro della masturbazione».
Tremo all’idea di chiederle che cosa fosse.
«Un quaderno nel quale annotavano quelli che si masturbavano, perché all’epoca era considerato un atto malato. Ovviamente lo feci eliminare, così come misi assieme uomini e donne, annunciando il desiderio di celebrare, un giorno, un matrimonio e un battesimo in ospedale».
È poi accaduto?
«No, ma per anni la domenica ho portato a casa mia, a pranzo, dei malati di mente. I miei si preoccupavano, ma non perché portassi dei malati: si domandavano perché non uscivo con le ragazze».
Negli Anni Settanta l’omosessualità era ancora nel novero delle malattie mentali.
«Solo nel 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità la cancellò dall’elenco. Non dimenticherò mai quel personaggio famoso della Rai che, anni prima, era venuto da me chiedendo di essere curato perché credeva davvero che amare un altro uomo fosse una malattia».
Poi nella sua vita arrivò Laura Migliarese.
«Ci siamo conosciuti all’università e siamo sposati da quasi sessant’anni».
Nel suo libro, tra i principi cardine di una civiltà lei parla a lungo del senso del sacro. Posso chiederle se, da non credente come si è spesso definito, qualcosa è cambiato nella sua vita?
«No, sono sempre un ateo che cerca Dio».
Non lo ha ancora trovato?
«No, ma se lo troverò farò esattamente quello che mi chiederà».
Lei ha analizzato persone come Pietro Maso, condannato per aver ucciso i genitori o Donato Bilancia, serial killer.
«Maso era un narciso: annullava il suo prossimo con naturalezza. Ma era diventato un mito: una ragazza arrivò a lasciare il suo posto da commessa per diventare la sua fidanzata e andarlo a trovare in carcere al sabato».
Donato Bilancia.
«Tredici ergastoli per diciassette omicidi. Per anni ho trascorso con lui le serate, andavo a visitarlo anche quattro volte alla settimana, lo feci trasferire da Genova in Veneto per poterlo esaminare bene. E aggiungo una cosa».
Prego.
«Io non ho mai voluto farmi pagare per le ore e ore che stavo coi detenuti. Non sopportavo l’idea di una tariffa oraria per indagare una mente».
Lei si è occupato anche della strage di Piazza della Loggia, a Brescia.
«Un periodo difficilissimo. In questo caso eravamo tenuti a giurare riservatezza e per mesi interi la mia famiglia non ha saputo dove andassi. I quattro che vennero accusati all’inizio, se presi singolarmente per me non riscontravano patologie importanti. Ma se esaminati insieme, sì».
L’idea che il male nasca da una dinamica di gruppo?
«Sì, ancora oggi sono convinto che il male sia una parte di ciascuno di noi, tutti lottiamo con i nostri demoni. Non si guarisce ignorando le proprie ombre. Al contrario: si impara a conviverci».
Lei per dieci anni ha fotografato alberi.
«Una meditazione sulla bellezza della natura, anche quella imperfetta: non ho mai voluto raddrizzare un ramo storto, ma osservarne le forme».
Nel libro scrive: «Non siamo macchine programmate per compiere in maniera precisa ciò che siamo destinati a fare».
«Semplicità significa accettare di essere una espressione della natura, e non il risultato artificioso della chirurgia estetica o di gesti eroici».
Professore, a quasi 86 anni lei è in gran forma.
«Non male per uno al quale, a dodici anni, venne diagnosticata una malattia rara che avrebbe potuto compromettere la facoltà di camminare. Ho fatto così tante sabbiature che oggi non sopporto il mare, ma non posso più nemmeno andare in montagna, a causa dell’ipertensione».
Com’è la sua giornata?
«Mi sveglio sempre alle sei e vado a letto alle 21. Ogni mattina bevo una camomilla e ogni sera mangio lenticchie. Carne rossa una volta alla settimana. Niente vita sociale, anche perché ormai non mi invitano più a cena fuori».
E come mai?
«Perché ogni volta dopo dieci minuti faccio la diagnosi al mio vicino di tavola. E così sono stato bandito dalle cene. Ma va benissimo: fino a quando saprò leggere e scrivere non morirò di solitudine».
Una leggerezza: in molti, a questo punto dell’intervista, si staranno chiedendo chi è il suo parrucchiere.
«Quando ero bambino i capelli me li tagliava mia madre, poi mi sono sposato e da allora me li taglia mia moglie. Non ho mai messo piede dal barbiere e quando una volta un famoso parrucchiere mi ha invitato perché voleva provare a cambiare la mia pettinatura, ho detto solo “no grazie”».