Corriere della Sera, 15 settembre 2025
Dazi Usa sui farmaci. Minaccia alla salute
Un farmaco non è uguale a un paio di scarpe, una bottiglia di vino o un’automobile, dove puoi sempre scegliere il prodotto che costa meno. Se sei malato e ti serve proprio quel farmaco specifico, o lo compri, o non ti curi. Per questo nel 1995, con l’accordo sulle regole mondiali del commercio, Stati Uniti, Unione europea, Macao, Giappone, Canada, Svizzera e Norvegia si impegnano ad azzerare i dazi sui farmaci. Oggi Trump si tira indietro e dà la colpa all’Europa: «I sistemi sanitari pubblici della Ue ottengono prezzi bassi dalle case farmaceutiche, grazie agli alti margini che fanno sul mercato americano. Stiamo sussidiando il socialismo altrui e quindi bisogna applicare dazi punitivi».
Le multinazionali farmaceutiche sono sia americane sia europee, ma gli stessi farmaci quando li vendono sul mercato Usa, secondo l’Istituto di ricerca Rand, costano fino al 422% in più.
Esempio simbolo: l’immunoterapico oncologico Keytruda, prodotto dall’americana Merck in Irlanda. Un trattamento annuale negli Stati Uniti costa circa 191 mila dollari a paziente, in Francia circa 91 mila euro, in Italia fra gli 80 e i 90 mila euro. Insulina: farmaco salvavita sintetizzato dall’americana Eli Lilly, dalla danese Novo Nordisk e dalla francese Sanofi. Fino al 2023 il prezzo di listino era sui 300 dollari. Da un paio d’anni il prezzo è sceso a 66 dollari, e a 35 dollari per chi rientra nel programma sanitario per anziani e disabili Medicare. In Italia e Ue è attorno ai 10/20 euro. Il 90% delle prescrizioni negli Usa è per i generici, che in media hanno prezzi del 33% più bassi rispetto ai Paesi Ue, ma poi al banco il paziente americano paga enormemente di più. Prendiamo l’Atorvastatina (cura del colesterolo), 30 capsule: dai 60 ai 120 dollari. La stessa confezione in Italia costa meno di 8 euro. Il Pantoprazolo (cura la gastrite), terapia da un mese: 174 dollari prezzo di listino, in Italia 11 euro. Il Metoprololo (beta-bloccante): 15-35 dollari e non è sempre reperibile ovunque, In Italia 2,95 euro.
Perché questa differenza?
In Europa sono le agenzie governative a negoziare i prezzi, e i farmaci di fascia A sono in larga parte a carico dei Servizi sanitari nazionali. Negli Usa invece sono i produttori a fissare i listini, e la catena di fornitura è gestita dagli intermediari (Pbm), che negoziano prezzi e condizioni per conto delle assicurazioni, gestiscono i formulari e le richieste di rimborso. Secondo l’indagine Antitrust gonfiano i prezzi lungo la filiera. E alla fine il cittadino quanto paga? Dipende dal tipo di assicurazione che ha stipulato. E chi non è assicurato paga per intero. Il problema dunque non è dell’Europa, ma interno al sistema sanitario americano. Lo stesso discorso vale per i dispostivi medici (pacemaker, impianti cardiaci, sistema robotico, Tac, Risonanze magnetiche, ecc.): i produttori sono sia americani (Medtronic, Abbott, Intuitive Surgical) sia europei (Philips, Siemens, ecc.), ma gli ospedali americani pagano più caro rispetto a quelli europei, che invece passano per le gare pubbliche d’acquisto. In sostanza, come per i farmaci, quando le aziende vendono nei due mercati si adeguano ai rispettivi sistemi sanitari. E se negli Stati Uniti le aziende fanno profitti immensi proprio perché manca il controllo pubblico, sul mercato europeo non ci perdono: ogni anno realizzano guadagni a doppia cifra. Sarebbe utile per il presidente Trump riflettere su un dato: l’aspettativa di vita negli Usa è di 78,4 anni, la media Europea è di 81,5 anni, in Italia 83,4. Invece dal suo punto di vista una raddrizzata al sistema sanitario si fa prima di tutto con i dazi.
A maggio 2025 la Casa Bianca con un ordine esecutivo rilancia l’idea del prezzo «Nazione più favorita»: in sostanza chiede che negli Usa il prezzo dei farmaci sia ancorato al prezzo più basso praticato nei Paesi Ocse comparabili. A fine luglio Trump invia lettere ufficiali ai Ceo di 17 multinazionali farmaceutiche: trasferite la produzione negli Usa per evitare i dazi, collaborate con il governo Usa per aumentare in prezzi nella Ue, e sui nuovi farmaci non offrite prezzi migliori ad altri Paesi rispetto agli Usa.
Multinazionali statunitensi come Pfizer, Johnson & Johnson, Eli Lilly, Merck, Bristol-Myers Squibb e AbbVie da anni hanno impianti anche in Europa (Irlanda, Belgio, Germania, Spagna e Italia). Pfizer Italia produce antibiotici a Catania, e ad Ascoli Piceno farmaci antivirali, antinfiammatori e oncologici poi esportati in tutto il mondo (Usa inclusi). Eli Lilly gestisce a Sesto Fiorentino uno dei più grandi impianti biotech per la produzione di insulina: il 98% esportato nel mondo, fra cui gli Usa. La britannica-svedese AstraZeneca ha 11 siti di produzione negli Stati Uniti, la francese Sanofi ha stabilimenti negli Usa, come pure le svizzere Novartis e Roche.
Nel 2024 i farmaci sono stati la prima voce dell’export Ue verso gli Usa, per un totale di 127 miliardi di dollari, di cui oltre 10 prodotti da stabilimenti italiani. Mentre l’import dagli Usa pesa per 45,9 miliardi.
Secondo l’industria, i farmaci coperti da brevetto tendono a essere prodotti in pochi siti globali (Europa o Usa) poiché replicare gli impianti su due continenti sarebbe inefficiente.
Ad agosto l’accordo Usa-Ue fissa un tetto del 15% sui dazi per i farmaci di marca e i dispositivi esportati negli Usa. Un’analisi di Jefferies stima per l’industria farmaceutica costi annui aggiuntivi tra 13 e 19 miliardi di dollari: in parte saranno ammortizzati grazie agli alti margini sul mercato Usa, e in parte scaricati sui consumatori americani. L’entrata a regime di questo 15% dipenderà dall’esito dell’indagine Usa della «Sezione 232» su farmaci e componenti. Quindi una data certa non c’è.
Nel frattempo Trump ha ventilato barriere molto più alte (fino al 250%) se nei prossimi mesi le aziende non presenteranno piani di produzione sul territorio americano. Lo hanno già fatto: Roche per 50 miliardi di dollari, Novartis per 23 miliardi, Sanofi per 20 miliardi, Merck per 1 miliardo, e pure Eli Lilly e Johnson & Johnson.
A fronte di investimenti enormi e costi del lavoro più alti rispetto all’Europa, venderanno poi agli americani a prezzi più bassi?
Gli addetti ai lavori rispondono «no». Nel breve-medio termine le aziende cercheranno eventualmente di ottimizzare: produrre in Usa per gli Usa, in Europa per l’Europa.
Un dirigente d’industria sostiene che il tema dei prezzi sarebbe solo fumo negli occhi: il vero obiettivo di Trump è quello di spostare posti di lavoro e gettito fiscale dalla Ue negli Usa.
Qualora le aziende decidessero di trasferire linee di produzione dagli stabilimenti Ue negli Stati Uniti per evitare dazi, i prezzi dei farmaci per i pazienti europei cambierebbero? No, e per due ragioni.
1) Nella Ue i prezzi sono fissati da regole e negoziazioni nazionali (Aifa in Italia, Ceps in Francia, BfArM in Germania, ecc.), e i Servizi sanitari nazionali rifiutano aumenti non giustificati dal valore terapeutico.
2) Bruxelles ha deciso di non applicare barriere ritorsive sui medicinali importati dagli Usa, proprio per non impattare sul sistema pubblico.
Alla fine dunque l’onere ricade sui pazienti americani, che avranno polizze più care o minor accesso alle cure. Ma in realtà siamo tutti a rischio perché l’amministrazione Usa sta considerando dazi sui principi attivi prodotti da Cina e India, e da cui Europa e Usa dipendono largamente. Le associazioni di settore e analisti indipendenti avvertono: tariffe doganali estese porteranno lungo tutta la filiera inevitabili ritardi e carenze per terapie essenziali, oncologiche incluse.
Per dirla con le parole di Douglas Irwin, lo stimato professore di economia del Dartmouth College: «Abbiamo un presidente del XX secolo in un’economia del XXI secolo che vuole riportarci al XIX secolo».