La Stampa, 14 settembre 2025
La politica violenta
E così, l’omicidio di Charlie Kirk sembra avere spalancato la consapevolezza delle “porte dell’inferno” della violenza politica. O forse no; ed esclusivamente a senso unico, a giudicare dalle affermazioni di Trump, che ha immediatamente colto l’occasione per addossare la colpa dell’assassinio alla «sinistra radicale», anziché chiamare la nazione all’unità come imporrebbe la carica che ricopre. E dire, appunto, che questa dovrebbe essere l’occasione per riflettere su una dialettica politica che si è sempre più impregnata di odio, dando (tristemente) ragione a chi sottolineava come l’escalation dell’incivility politics e dell’hate speech nelle nostre già assai ammaccate e denigrate democrazie liberali avrebbe prodotto conseguenze molto gravi.
Invece, l’accusa di essere fomentatori di odio si fa immancabilmente propaganda a corrente alternata, e viene sistematicamente rovesciata sugli avversari, che vengono in tal modo convertiti in tutto e per tutto in nemici. E quando si passa dalla battaglia delle idee alla categoria schmittiana del nemico viene a cadere l’impalcatura stessa – basata sul riconoscimento e il rispetto di fondo delle opinioni discordanti – della democrazia parlamentare e costituzionale.
Il catalogo recente è decisamente vasto, e appare l’equivalente di un piano inclinato nel quale il principio identitario – la scorciatoia subentrata alla fine delle ideologie – si salda con la delegittimazione di chi la pensa diversamente, generando un sonno della ragione che produce mostri, fino alle estreme conseguenze di quanto tragicamente avvenuto al leader del movimento Turning Point. Ma la risposta non è la facile e totale autoassoluzione che si è ritagliata la premier Giorgia Meloni sul podio della festa nazionale dell’Udc. Né, tanto meno, l’evocazione di un irricevibile paragone fra le posizioni delle minoranze in Parlamento e «le parole delle Brigate rosse», come ha fatto il suo ministro Luca Ciriani.
Anche perché la (vittoriosa) crescita del neopopulismo di destra ha corso in parallelo con il dilagare dei discorsi d’odio in rete, autentico – ed economicissimo – propellente elettorale utilizzato dalla cosiddetta «Bestia», l’apparato propagandistico social della Lega in servizio permanente effettivo seppure sotto altre spoglie. Per documentare quanto la strategia della gogna e la politics of hate siano state brandite come delle clave dai politici della destra italiana basta passare in rassegna un po’di loro dichiarazioni recenti. A fare la parte del leone – da tastiera e non solo – sono stati spesso gli esponenti della Lega, a partire da Matteo Salvini che, qualche tempo fa, salì sul palco di un comizio con una bambola gonfiabile indicata come «la sosia della Boldrini».
L’ex presidente della Camera è stata uno dei bersagli più ignobilmente gettonati delle invettive degli antagonisti, in un contesto in cui il sessismo, con vari gradi di intensità, continua a costituire un’arma di svilimento anche politico. E, al riguardo, non si può non ricordare che Silvio Berlusconi – intento a condurre la sua campagna “antibolscevica” fuori tempo massimo, e in assenza di avversari che si definissero ancora comunisti – aveva etichettato Rosi Bindi come «più bella che intelligente». Una “battuta” sprezzante la cui vera paternità venne rivendicata orgogliosamente da Vittorio Sgarbi, il cui campionario di insulti verso chi lo contrastava è notorio e troppo lungo da riportare qui. Sempre in area leghista, dove il primo campione di insolenze per i critici era stato Umberto Bossi, si è “distinto” Angelo Ciocca, un autentico performer antistranieri e anti-Ue ("memorabile” il suo spettacolino di avariato varietà quando calpestò «con una suola made in Italy» i fogli di una relazione dell’allora commissario Pierre Moscovici).
Ma questa classifica della vergogna dell’incontinenza verbale che si fa oggetto contundente – «ne uccide più la lingua della spada», diceva la saggezza popolare – non costituisce una prerogativa esclusiva delle destre. Per il discorso violento vale il trasversalismo più assoluto; e, infatti, lo si ritrova anche a sinistra. A cominciare, naturalmente, dal M5S, un’organizzazione – oggi in larga parte bonificata e ripulita – che venne edificata sul livore e il risentimento, fra i Vaffa Day di Beppe Grillo e l’incoraggiamento degli shitstorm internettiani utilizzati in chiave di proselitismo e gabellati alla stregua di un’anarchica libertà di espressione (come da Ideologia californiana giunta sino a Curtis Yarvin ed Elon Musk).
Ed ecco, allora, che in una non ideale chiusura del cerchio il pentastellato Manlio Di Stefano se la prendeva pure lui con «la Boldrini zombie, donna senza dignità». Sino, proprio in questi giorni, ad Alessandra Maiorino – a dimostrazione che certi vizi non si perdono mai, anche se si muta pelle – che se ne è uscita apostrofando il ministro degli Esteri Antonio Tajani come «un influencer prezzolato di Israele». E pure il Pd, sui territori, ha offerto alcuni episodi desolanti, localizzati non di rado in Piemonte: dal profluvio di contumelie contro tutto e tutti (Meloni in primis) di Vincenzo De Luca a Fabio Tumminello di Venaria che aveva pubblicato un post con la scritta “Salvini appeso”, sino al “regolamento di conti” alla Circoscrizione Otto di Torino con i commenti volgari e misogini di Dario Pera contro Noemi Petracin. Un discorso d’odio che è stato riversato perfino contro il Quirinale, dal solito Salvini che si diceva pronto a «cedere due Mattarella per mezzo Putin» alla petizione menzognera contro il Presidente piena di firme fake consegnata dai suoi promotori in estasi alla portavoce-disinformatrice in capo del ministero degli Esteri russo. E, da ultimo, all’inserimento del nostro Capo dello Stato nella cremlinesca lista ufficiale dei sedicenti “russofobi”.
Le parole sono importanti, andrebbe tenuto sempre a mente, specie da parte dei politici. Se non fossero troppo spesso direttamente impegnati a dare il cattivo esempio.