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 2025  settembre 13 Sabato calendario

Siate apolidi e insicuri, leggete poesia

Nel maggio del 1988 il poeta russo Iosif Brodskij viene invitato a inaugurare il primo Salone del libro di Torino. L’Unione Sovietica è ancora al suo posto ma Brodskij vive negli Stati Uniti da più di un decennio. Da quando, nel 1972 è salito su un aereo per Vienna sapendo che stava lasciando il suo paese per sempre, dopo aver scontato 18 mesi in un campo di lavoro per “parassitismo”, e dopo che dieci ufficiali hanno fatto irruzione nel suo appartamento. Ammesso e non concesso che abbia un’alternativa, sceglie l’esilio. Il passaporto sovietico gli è stato revocato, il che significa che Brodskij è diventato un uomo che non appartiene burocraticamente a nessuno. Un apolide. Otterrà la cittadinanza americana nel 1977. Ci sono cinque anni in cui esiste solo per sé stesso. Sono sette anni per così dire fuori dalla forza gravitazionale di un potere politico. È un uomo libero. O un uomo senza protezione.
Quando arriva a Torino è fresco di Nobel, ricevuto a Stoccolma nel 1987. Nel discorso scritto per l’accettazione del Premio, ha detto molte cose. Da un lato c’è la Storia, ha detto, e dall’altra c’è lo scrittore, che le si oppone. Quel che un essere umano, un «uomo», può e deve fare è «vivere una vita propria, di cui sia padrone, non già una vita imposta o prescritta dall’esterno». Sembra facile, ma è una cosa da titani. Vuol dire mettere davanti a tutto una solitudine assoluta, senza la stampella di un racconto più grande – quello della patria, dello stato – cui appoggiarsi. Essere soli, essere apolidi e scrivere una manciata di versi sono la stessa cosa.
Torniamo a Torino. Nel maggio del 1988 l’Italia sta inaugurando la fiera più importante dell’editoria italiana, cioè un evento che ha il libro come motore principale. C’entra con la letteratura? Sì, certo, in parte. L’altra parte, è commerciale. L’idea, o la domanda, che soggiace a tutto questo è semplice: come si fa a far arrivare il libro a più persone possibili? A tutti, persino, se possibile? Per rispondere chiamano un poeta che nel suo Paese, nell’allora Unione Sovietica, non è letto da nessuno.
Brodskij arriva al Teatro Regio, e distribuisce il suo discorso in inglese. Siamo nella seconda metà degli anni ’80, essere letti da tutti – o da tantissimi – è una delle branche del commercio. La lettura di massa, per quanto si tratti sempre di una massa circoscritta, è già realtà. Chiunque scrive ambisce a quella massa, anche gli scrittori per così dire intellettuali. Il nome della rosa, anni prima, è diventato un fenomeno. L’unica cosa che manca è una manifestazione popolare. Ancora non lo si può sapere, ma nei giorni successivi 165mila persone entreranno al Lingotto.
Eppure Iosif Brodskij, l’uomo senza passaporto, l’apolide, quando gli aprono il microfono dice il contrario di quel che ci si aspetti. Se il punto è inaugurare l’era di massa per i libri e per la scrittura, o quanto meno di una massa rigorosa – se così si può dire -, il fresco Premio Nobel compie una specie di sabotaggio. Si schiarisce la voce e parla di una «categoria di persone per le quali la letteratura è sempre stata una faccenda di qualche centinaio di nomi». Gli hanno offerto l’occasione, storica per l’Italia, di tagliare il nastro di un futuro a tanti zeri per i libri, e lui se ne arriva lì a parlare di un centinaio di persone. Gli hanno chiesto di mettere un bollino di qualità a una manifestazione popolare che sta per iniziare, e Brodskij parla di un gruppo di persone che se si trovano a parlare «da un podio è perché si ribellano all’ordine del mondo in generale». I poeti.
Ma se fosse solo così, se fosse arrivato lì a parlare da poeta, e dei poeti, sarebbe un fatto naturale. È un poeta, non può fare altro. Solo che Brodskij è uno che prende le cose sul serio. Gli hanno chiesto di fornire alla massa dei lettori italiani una bussola per orientarsi, cioè un criterio per fare la spesa nei padiglioni del Lingotto, e lui lo fa. Offre i poeti come metro per spostarsi con il carrello della spesa – o con delle borse, più verosimilmente. «Il modo di sviluppare il buon gusto in letteratura è leggere poesia», dice. Più si legge poesia, «meno si tollera ogni sorta di verbosità». Sta invitando i lettori a entrare in un luogo in cui sono ammassati centinaia di migliaia di libri, molti inevitabilmente verbosi. E invita a non tollerarli. «La poesia – dice Brodskij a Torino – rappresenta la grande disciplina della prosa». Poi comincia l’affondo, di cui non è chiaro quanto il pubblico del Regio sia subito consapevole. Propone un piccolo gioco, come bussola. Dice in sostanza prendete in mano qualche libro di uno dei poeti che vi suggerisco. E lì comincia a stilare un lungo elenco di nomi divisi per paesi, da Frost a Auden, da Szymborska a Rilke, a Pessoa, a Saba.
Ecco, dice: «Tutto quello che dovete fare è armarvi, per un paio di mesi, delle opere di poeti scritte nella vostra lingua madre». Non è un grande impegno. «Penso che vi ritroverete tra le mani una dozzina di libri piuttosto smilzi, ed entro la fine dell’estate sarete in gran forma». C’è da leggere poco. E cosa c’entra questo con tutti i libri impilati tra gli stand del Lingotto, per la maggior parte in prosa? È lì che Brodskij, chiude la partita. Leggete la poesia, dice. Dopo averla letta a sufficienza prendete in mano uno, o dieci, o cento, o mille libri di prosa tra quelli che troverete al Lingotto da domani. Quello che succederà sarà immediato, netto, non negoziabile: dopo aver letto uno di questi poeti, abbandonerete un libro di prosa preso a caso tra gli scaffali. Non dice proprio così. Dice: «Se abbandonerete un libro di prosa, non sarà per colpa vostra. Se invece continuerete a leggerlo, sarà merito dell’autore». Vorrà dire che ha qualcosa da aggiungere alla verità sulla nostra esistenza, «come era nota ai pochi poeti appena citati».
Sabotaggio, o provocazione, completata. Il poeta Iosif Brodskij, l’apolide, non potrebbe essere più chiaro e più spietato di così, anche se nessuno se ne accorge. Entrate nella prima fiera del libro italiana, dentro il primo evento popolare dedicato ai libri. Entrateci con un paio di volumetti di poesia in tasca: non comprerete quasi niente. Ne uscirete, qualche ora dopo, con quegli stessi due volumetti, più quei pochi libri di prosa che avranno resistito all’assalto della poesia, alla sua disciplina. Vedrete che vi basterà.