La Stampa, 13 settembre 2025
Irene Brin. La cultura dello stile
Con una quantità di pseudonimi: Morella, Oriane, Maria del Corso, Marlene, Ortensia, Madame d’O, Geraldine Tron, Contessa Clara, Irene Brin, al secolo Maria Vittoria Rossi, per gli amici Mariù, ha impresso un segno indelebile sulla cronaca di moda e costume dagli Anni Trenta agli Anni Sessanta, inventando un nuovo tipo di giornalismo che avrebbe avuto sfilze di ammiratori. Da Luigi Pirandello a Camilla Cederna.
Irene, che amava leggere nella vasca da bagno e scrivere a letto, inventò un nuovo tipo di giornalismo di costume, frivolo e colto. Un amore, quello per la lettura che le era stato trasmesso dalla madre, Maria Pia Luzzatto, donna elegante e coltissima. Nata a Roma nel 1911 in una solida famiglia borghese – il padre era un generale dell’esercito – scrisse il suo primo articolo per le pagine di cronaca mondana del quotidiano genovese Il Lavoro. Era firmato Marlene. Da allora deliziò i suoi lettori per quasi quarant’anni.
Nel 1935, a un ballo della cavalleria all’Hotel Excelsior di Roma, conobbe il tenente Gaspero Del Corso di cui si innamorò all’istante. Irene, famosa per la sua eleganza flamboyant, indossava un abito di lamé bianco con piccolo strascico foderato di rosso («Ballammo insieme tutta la sera parlando di Proust ci scrivemmo e ci vedemmo appena quattro o cinque volte prima di sposarci»).
A partire dal 1937, Gaspero sarebbe stato suo marito, amico, consulente, socio in affari per il resto della sua vita. La consapevolezza dell’omosessualità del marito non scalfì il loro legame. Nello stesso giorno del matrimonio comparve il suo primo articolo su Omnibus, settimanale di attualità politica e culturale diretto da colui che Irene considerò sempre «il mio maestro»: Leo Longanesi. Fu lui a insegnarle a togliere dai suoi pezzi «la panna montata degli aggettivi» e a ideare il suo più famoso pseudonimo: Irene Brin. Presto, il suo genere, la cosiddetta «brinata», divenne di gran moda. Il Bertoldo, periodico di Rizzoli, la rese addirittura protagonista di un calembour: «Irenebrinentrano, Irenebrindano, Irenescono».
Allo scoppio della guerra, quando Gaspero fu chiamato alle armi in Jugoslavia, Irene lo raggiunse. In quel periodo scrisse i racconti che raccolse nel volume Olga a Belgrado (1943). Nel 1944 uscì il suo secondo libro, Usi e Costumi 1920-1940. Passando dalla moda al cinema, dai viaggi ai balli, Irene vi descriveva abitudini e piccole manie di una generazione, come l’amore per l’indipendenza, per i viaggi o l’ossessione per la linea durante gli Anni Venti quando le signore si nutrivano di «insalata ed aranci, senza olio, senza zucchero, si pesavano, si confrontavano le cinture, parlavano di diete difficili da seguirsi alla mensa familiare, sognavano partenze per rinomati luoghi di cura, dove il digiuno fosse consentito e vigilato».
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1946 i coniugi Del Corso, grazie a una piccola eredità, aprirono una galleria d’arte in via Sistina 146 a Roma: L’Obelisco. All’Obelisco, Gaspero e Irene contribuirono a lanciare sul mercato dell’arte internazionale giovani artisti italiani come Burri, e Afro, Gnoli e Mirko. Al tempo stesso importavano in Italia grandi artisti stranieri da Rauschenberg (1953) a Calder (1955).
Nel frattempo Irene scriveva per una quantità di riviste, da Bellezza, raffinata testata di moda ideata da Giò Ponti, con cui iniziò a collaborare dal 1941, alla Settimana Incom Illustrata. Qui, dal 1950 al 1969, anno della sua morte, firmandosi Contessa Clara, tenne una famosa rubrica di buone maniere. Il successo della Contessa Clara fu tale che, di lì a poco, venne parodiata alla radio da Franca Valeri. In seguito stralci dei suoi consigli di stile furono raccolti dalla stessa Brin nel Dizionario del successo dell’insuccesso e dei luoghi comuni (Sellerio editore 1986).
Una mattina del 1950, mentre si trovava a New York a passeggio per Park Avenue, venne notata da una donna minuta con i tratti marcati come quelli di un’indiana. Era Diana Vreeland, potente fashion editor di Harper’s Bazaar che, incantata dal tailleur di Fabiani della misteriosa signora, le chiese senza preamboli «dove l’ha preso, di chi è?». Nacque un sodalizio e Irene, dal 1952 al 1969, divenne Rome editor di Harper’s Bazaar. Attraverso tutti i suoi scritti, spaziando in maniera colta e leggera tra arte, moda, storia e letteratura, come ha scritto Flavia Piccinni, Irene: «Apparecchia per noi un mondo, e ci invita a guardarlo con lei».