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 2025  settembre 13 Sabato calendario

Intervista a Bruno Longhi

La sua prima cronaca sportiva risale al 1956: una dozzina di righe, sul quaderno dei temi di quinta elementare, in cui racconta il suo debutto a San Siro. È un racconto immaginario, ma predittivo: perché quel campo, di lì a qualche mese, Bruno Longhi lo avrebbe calcato davvero. «Avevo 11 anni, giocavo nel “Nagc”, la prima scuola calcio di Milano», ricorda una delle voci più riconoscibili dello sport italiano. «Dopo un po’ di mesi e qualche gol, mi proposero di partecipare a una delle partitelle che si disputavano prima dei match di campionato».
Come andò?
«Un disastro, toccai giusto due palloni: gli avversari erano troppo grandi e forti. Ma attraversare il sottopassaggio col brusio degli spettatori mi fece tremare le gambe».
Col calcio giocato finì lì?
«No. A un certo punto arrivai nelle giovanili dell’Inter, poi però mi beccai tre bronchiti di fila: per ricominciare, andai a trovare i miei amici nell’oratorio di quartiere. Dagli spogliatoi, sentivo l’eco di una musica. E visto che nel frattempo avevo cominciato a suonare, andai a sbirciare».
Chi c’era?
«Mario Lavezzi, Tonino Cripezzi, Mimmo Seccia, Gianfranco Longo. Mi dissero: abbiamo bisogno di un bassista. Presi una chitarra elettrica, la trasformai in un basso e iniziai. Diventammo “I Trappers"».

Eravate giovanissimi.
«Non avevamo ancora 18 anni. Cantavamo anche sulle navi da crociera: due vomitavano e tre suonavano, l’unico che non vacillava mai era Lavezzi. Nel ’65 ci trovammo a Finale Ligure a esibirci, con Teo Teocoli come voce. Fu un successo incredibile ma lui – che era già un viveur – andò via».
A un certo punto lei cantò anche con Gianna Nannini.
«Si propose come voce in un altro nostro gruppo, “Flora Fauna e cemento
”, allora in via di ristrutturazione dopo i piccoli successi degli anni precedenti. Era brava, ma aveva i suoi tempi. Così le consigliai di cercare un’altra strada. Tempo dopo la incrociai in una radio privata, me lo ricordò e ci facemmo una risata».
Ma è vero che il nome di quel gruppo lo scelse Lucio Battisti?
«Sì. Con Lavezzi entrai a far parte della casa discografica sua e di Mogol, la Numero uno».
Che rapporti aveva?
«Con Mogol ottimi: impossibile non fraternizzare. Con Lucio, inizialmente, nessuno. Per mesi lo salutai senza un cenno di risposta, si sciolse solo a furia di caffè: ne prendevamo uno insieme tutte le mattine al bar, sotto la casa discografica. Diventò un rito, anche perché pagavo sempre io. Un giorno davanti alla cassa disse: “Lascia, stavolta faccio io”. Ne pagò solo uno: il suo».
Dopo tutti questi caffè, arrivò almeno qualche consiglio?
«Nel 1970 scrissi con Mogol una canzone, Azzurra, che Little Tony portò a “Canzonissima”. C’era qualcosa in un inciso che non tornava, fu Mogol a dirmi: “Chiama Lucio, vedrai che te la sistema lui”. E in effetti andò così, ma prima di parlargli serviva la password».
La password?
«Battisti rispondeva al telefono di casa solo se prima della chiamata aveva ricevuto, per tre volte di fila, un singolo squillo.
Era il suo modo di filtrare scocciature».
Tanta musica, ma intanto studiava?
«Economia e commercio, in Bocconi, come voleva papà. Per la matematica, però, non ero portato, così per avere un’entrata fissa iniziai a lavorare in Borsa».
A far che cosa?
«Me la cavavo con l’inglese, col tedesco, con lo spagnolo e, un po’, con il francese: tutti i giorni, alla chiusura di Piazza Affari, scrivevo la stessa frase in varie lingue. Una iattura. Fino a quando Lucio Salvini, il direttore artistico della Ricordi, mi chiese di preparare in una radio delle scalette musicali. Fu lì che proposi: “Perché non facciamo anche un programma di calcio?"».
Andò bene: qualche mese e si trovò a fare la prima intervista in tv.
«A Nils Liedholm, per Telemilano 58. Dopo la messa in onda, mi chiamarono dalla redazione iniziandomi a parlare del proprietario, un certo Silvio Berlusconi. Alla terza volta dissi: “Scusate, io non so chi sia”. “Ma come? – risposero – È quello che fatto Milano 2 e Milano 3!”. “Su Beccalossi e Rivera sono preparato – replicai – ma sui costruttori di case no».
Poco dopo, a Telemilano, arrivò anche Mike Bongiorno.
«Conduceva un programma di calcio “MilanInterclub”, in cui io mi occupavo dell’angolo dell’Inter. Prima della diretta, il nostro ospite disertò per una febbre. L’addetto delle pulizie sbottò: “Mi sono fatto mettere in turno perché da quarant’anni non perdo una partita dell’Inter!”. Mike lo guardò e lo spedì in sartoria: “Sarà lui il nostro ospite” disse, prima di presentarlo al pubblico creando un’aspettativa incredibile».
Andò a Telemontecarlo per commentare i Mondiali del 1982 e del 1986; poi, però, tornò da Berlusconi.
«C’era da negoziare il cachet, pensavo di chiedere la stessa cifra che prendevo a Tmc, ma mia moglie mi disse: “Prova col doppio: non li hai cercati tu, ti han cercato loro”. Non batterono ciglio. Forse, avrei potuto ottenere di più».
Divenne la prima voce delle partite Fininvest. Oltre alle telecronache, però, continuava a fare molte interviste.
«Dirigenti e calciatori oggi sono diventati degli dèi inavvicinabili. Ma un tempo non era così: se dovevo sentire Michel Platini, chiamavo direttamente in spogliatoio».
Rapporti di amicizia?
«Tanti, a cominciare da Giovanni Trapattoni. Una mattina, mentre era al Bayern Monaco, mi chiamò e in dialetto milanese mi disse: “Hai la cinepresa? Oggi faccio un casino inenarrabile”. Passò qualche ora e venne fuori la famosa conferenza stampa in cui se la prese con Strunz».
La sua rivalità con Sacchi, all’inizio degli anni Novanta, riempì molte pagine di giornali.
«Erano il diavolo e l’acqua santa: Arrigo mi diceva che il Trap era un difensivista, Giovanni replicava: “Io però gioco con quattro attaccanti, lui no"».
L’ossessione di Sacchi per gli schemi era proverbiale.
«Van Basten era da pochi mesi arrivato al Milan, quando si sfogò dicendomi: “Appena entro a Milanello, il mister inizia a dirmi che devo fare certi movimenti; prima dell’allenamento me lo ridice; quando vado via, di nuovo. Il problema non è che si ripete: è che ho il dubbio che pensi che io sia cretino"».
In quarant’anni ha raccontato otto Mondiali, otto Europei, una ventina di finali internazionali. Ama ancora guardare il calcio?
«Del calcio di oggi – come dice il mio amico Liam Brady – mi piace la partita. Tutto il resto no, a cominciare dalla tifoseria sui social».
Il calcio è sempre stato tifo.
«Il problema non è il tifo, ma l’anonimato. Prenda uno come Gianni Brera: se vivesse oggi, dopo aver scritto i suoi pezzi memorabili, sarebbe insultato dal primo cretino nascosto dietro a un account anonimo.
Ecco: una cosa del genere, per me, non dovrebbe mai accadere». —