repubblica.it, 14 settembre 2025
Intervista ad Antonio Ballista
Incontrarlo nella sua casa in Città Studi con due pianoforti a coda di rappresentanza e pile di carta disseminate sul parquet fra spartiti, saggi e romanzi, può sembrare un sofferto esercizio chirurgico. Sarà mai possibile, ci si chiede, isolare Antonio Ballista dal formidabile duo pianistico con Bruno Canino (prossimo traguardo la festa-concerto del 22 novembre in Conservatorio per i 70 anni di palcoscenico) come se qualcuno separasse per gioco Fruttero da Lucentini, Stanlio da Ollio o solo delle gemelle Kessler, vista la solida identificazione di coppia maturata da loro nel tempo? Ma la legittimazione è possibile grazie alla poliedricità culturale, all’entusiasmo e all’ironia sottile di questo interprete (audace e innovativo, già negli anni delle avanguardie) prossimo a varcare la soglia dei novant’anni. Uno che, spronato dalla convinzione che «esistano sinfonie noiosissime e Song strepitosi» ha sempre percorso l’orizzonte delle sette note sul filo dell’ibrido: alternando Berio, Ligeti e Cage al repertorio classico-romantico, riscoprendo con sguardo colto le canzoni leggere con il gruppo Novecento e Oltre e il Trio Fata Morgana, intrecciando sinergie dal pop d’autore (Franco Battiato) all’amatissimo Lied, vedi i programmi attuali con Lorna Windsor che sfociano nel teatro. Ancora, dalla direzione d’orchestra su temi di Bixio, Gill e Kramer all’accostamento con attori come Paolo Poli, Milena Vukotic e Toni Servillo. E poi, dove trovare un pianista, sofisticato disegnatore, che vanti ben dieci acqueforti esposte all’Albertine Museum di Vienna.
Maestro, che ruolo ha avuto per lei il nonno che era amico di Puccini nella formazione musicale?
«Marginale, perché alla sua morte nel 1953 non ero ancora entrato in Conservatorio. Peccato perché effettivamente lui, Angelo Bettinelli, era intimo di Puccini che gli confidava gli affanni più segreti, professionali e non. Nel 1904 al dal Verme toccò a lui preparare i cantanti per Madama Butterfly dopo il fiasco scaligero. E da quel momento sia Puccini che Ricordi non vollero altri per la concertazione e l’insegnamento dei nuovi spartiti».
Un antenato a dir poco illustre.
«Fu chiamato più volte da Toscanini e ebbe rapporti fraterni con Giordano (con il quale condivideva la passione per la fotografia), Cilea, Zandonai, Alfano e Montemezzi. Vantava l’ammirazione incondizionata di Richard Strauss, che lo volle per la prima italiana alla Scala del Cavaliere della rosa. Le prime impressioni musicali le ho avute proprio dal nonno, quando durante la guerra sfollammo a Barzio, in Valsassina. Lo ascoltavo accompagnare i cantanti al pianoforte. Una delizia».
La sua formazione. Studi in Conservatorio e serate alla Scala.
«Al Verdi ho studiato pianoforte, composizione, direzione e musica da camera e quando era possibile mi rifugiavo alla Scala: ricordo alcune esecuzioni memorabili come le sette sere del Pélleas di Debussy con de Sabata, che promossero questo autore francese a mio eroe preferito. E poi il Verdi dell’Ernani diretto da Mitropoulos. Emozioni uniche».
Che ricordi ha di ciò che succedeva fuori dall’aula?
«Un’ascensione dolomitica organizzata da mio cugino e compositore Bruno Bettinelli a Cortina d’Ampezzo, a cui partecipò anche il diciassettenne Maurizio Pollini. Davanti a una parete di venti metri, mentre la guida ci raccomandava la massima cautela, vedemmo Pollini salire velocissimo e poi guardarci dall’alto in modo ironico. E in questa sua impresa c’è un richiamo ai suoi concerti, che davano l’impressione di imprese mitiche. Con il giovanissimo Claudio Abbado giocavamo a ping-pong e persino ai quattro cantoni a mezzanotte in una Piazza del Duomo deserta. Di Muti invece rammento la cena d’addio al celibato, che ha svelato il suo inesauribile humour».
A un certo punto il maestro Antonio Beltrami vi mette a suonare insieme, lei e Canino. Come andò?
«In un bellissimo pomeriggio suonammo a quattro mani Ma Mère l’Oye di Ravel. Ci stupimmo per l’intesa perfetta che rivelava un’armonia prestabilita e poi eravamo voracissimi di musica, sempre in biblioteca a scovare spartiti. Accanto a Verdi, Puccini e Wagner, Petrassi, Dallapiccola, Casella, Malipiero, Ghedini. Poi l’avanguardia di Stockhausen, Berio, Ligeti, Boulez e Cage che stava aprendo le porte dei teatri grazie alla nascente Neue Musik, diffusa dalla roccaforte di Darmstadt».
C’era diffidenza delle società a proporre programmi diversi.
«Sì, siamo stati tra i primi a eseguire le trascrizioni che non erano ben viste, per un residuo troppo scrupoloso verso la volontà dell’autore: ad esempio la Nona di Beethoven trascritta da Liszt per due pianoforti e Le Sacre du Printemps di Stravinskij nella versione dell’autore a quattro mani».
Nel frattempo, sdoganava la musica più leggera.
«A Parigi, lavorando con Boulez per Structures trovai in un negozio lo spartito di Ragtimes di Scott Joplin. Rimasi folgorato dalla freschezza zampillante di quelle note, come il dandy nero che porta il cappello di paglia sulle 23. Era pur sempre la musica di un popolo oppresso, ma sembrava voler bandire la tristezza».
Poi è venuta la riscoperta della canzone.
«C’è chi crede che la profondità in musica debba esprimersi in strutture complesse e che la facilità si identifichi con la banalità. Se questo fosse universalmente accettato, dovremmo buttare via metà della musica classica occidentale».
Far musica per lei è stato anche lavorare con grandi attori.
«Con Paolo Poli ho avuto un sodalizio trentennale, ma anche con Calindri, i Servillo, Guerritore e Vukotic, insieme ai quali ho soddisfatto il mio amore per il melologo. Una delle mie più insolite collaborazioni è avvenuta per la produzione scaligera del Matrimonio di Musorgskij su regia di Peter Ustinov, per l’occasione pure attore. Ero pianista e attore, come marito di Franca Valeri e innamorato di Ottavia Piccolo».
Come vede alla distanza il lungo legame con Battiato?
«Oltre che un’amicizia di rara intensità è stata un’occasione di arricchimento interiore. Ci accomunava la ricerca sull’esoterismo di Gurdjieff e l’interesse per la pittura. Ammiro tantissimo i suoi Arcani Ritratti e sono onorato che abbia scelto alcuni miei disegni per le copertine dei suoi dischi».
A proposito di pittura, lei dice di preferire una mostra all’andare a un concerto. Una boutade?
«No, è che l’immenso amore per la pittura come autodidatta mi accompagna da una vita, tra mostre e musei. Le mie acqueforti sono visibili a Vienna e alcune opere in una collezione a Volos, in Tessaglia. Bussotti (il compositore, ndr) ha riscontrato affinità nascoste tra la mia pittura e il modo di esprimermi musicalmente, ma per me si tratta solo di una sana schizofrenia».
Sentendola parlare, l’ironia resta un tratto caratteristico.
«Sì, persino quando racconto le vacanze passate insieme a Bruno e alle nostre famiglie, su viaggi a tema. Una volta pretendemmo di esaudire il rococò bavarese con il divieto assurdo di soffermarci su qualsiasi altra opera. A Regensburg però, scoprimmo che le nostre mogli uscivano apposta di nascosto dall’hotel per vedere anche la famosa cattedrale gotica. Uno spasso».