Corriere della Sera, 14 settembre 2025
Intervista a Massimo Dapporto
Massimo Dapporto, figlio d’arte: è stato suo padre Carlo a spingerla nella professione d’attore o è stata una scelta indipendente?
«Veramente, quando espressi a mio padre il desiderio di seguire le sue orme, fu lui a spingermi, sì, ma fuori dalla sua stanza! Mi disse: non ci pensare lontanamente, non sai a cosa vai incontro, è un mestiere precario, si fa la fame! E in effetti lui ha fatto la fame anche per me, io non l’ho fatta grazie a lui. Comunque, non avrei mai voluto essere un “raccomandato”, l’avrei considerata una sconfitta».
All’inizio, si era iscritto alla facoltà di Scienze politiche...
«Sì, ma ero una schiappa. A casa mi chiudevo in camera mia, registravo a voce alta brani dei testi che avrei dovuto studiare: recitavo come se stessi ripetendo la lezione e poi mandavo a tutto volume la registrazione. Così papà e mamma, passando vicino alla stanza, avrebbero creduto che mi stavo preparando per l’esame, e non mi avrebbero disturbato, invece leggevo i giornaletti o dormicchiavo».
La sua vera meta era l’Accademia d’arte drammatica.
«Esatto. Senza raccomandazioni, superai il provino, con tanto di complimenti da parte della commissione».
Suo padre fu contento?
«No, ci rimase male. Però, quando ho iniziato a fare qualche tournée, mi fece l’elenco di alberghi e ristoranti dove potevo andare a nome suo, dicendomi: senz’altro ti faranno degli sconti. Gli risposi che non volevo, nemmeno in questo caso, essere raccomandato e, date le mie scarse risorse economiche, mi accontentavo delle pensioncine e delle trattorie a basso costo».
No alle raccomandazioni, ma neanche consigli, suggerimenti da un grande attore come Carlo Dapporto?
«Ho accettato solo i suoi insegnamenti etici, ovvero: se avrai fortuna, ricordati di chi non l’ha avuta, non ti montare la testa. Il suo principale insegnamento era la moralità e lo osservavo sin da bambino: gli somiglio molto fisicamente e, quando recito, pur non facendone l’imitazione, mi rendo conto di muovermi come lui. In un certo senso, sono e continuo a essere Carlo Dapporto!».
Nel film «La famiglia» di Ettore Scola, impersonavate lo stesso personaggio, Giulio: lei da giovane, lui da anziano...
«Un bellissimo ricordo di quel set e soprattutto di una frase che mi rivolse Scola. Facendo i nomi di quelli che sarebbero andati avanti nella professione artistica, mi rassicurò: tu puoi andare avanti. Per me un prezioso viatico...».
Oggi a chi rivolgerebbe la stessa frase tra i giovani attori?
«Dico la verità: per quanto riguarda il teatro, mi capita di vederne tanti, magari già affermati nel cinema o in tv, che tentano la strada del palcoscenico, ma sono dei cagnetti. Lo spettacolo dal vivo richiede una preparazione diversa e gli spettatori, che magari li hanno ammirati in qualche film o fiction, quando se li ritrovano in scena, non li riconoscono, restano interdetti. Molti sono delle meteore, un po’ ignoranti. Una volta, ho citato a un giovane attore il mitico Tino Carraro. Non sapeva chi fosse, si è messo subito a googolare, chiedendomi: Carraro con quante erre si scrive?».
La sua carriera si declina fra teatro, cinema, televisione...
«Sì ma il modo di recitare deve essere relativo al mezzo. In teatro non esiste il primo piano, devi muoverti e usare la voce in modo da arrivare fino all’ultima fila. Nel cinema e in tv invece esiste il primo piano e non ti puoi muovere come in palcoscenico, faresti ridere i polli».
In teatro è contrario all’uso del microfono?
«Mio padre lo detestava, ma non deve essere considerato una bestemmia, a volte è necessario: gli spettatori anziani, per esempio, ti ringraziano, dicendoti che hanno capito tutto... se la gente non sente bene, bisogna aiutarla. In passato, quando in certi spettacoli comici gli spettatori urlavano “voce!”, gli attori rispondevano “orecchio!”. Anche a me è capitato che una spettatrice anziana, in platea, mi urlò “voce!” e le risposi “orecchio!”: tutti a ridere. Però attenzione, occorre usare l’amplificazione senza esagerare».
Quale altro consiglio darebbe a un giovane che vuole fare l’attore?
«Se dovesse fare cinema, gli darei lo stesso consiglio che Eduardo De Filippo diede a suo figlio Luca: comprati una sedia, perché i tempi di attesa, tra girare una scena e l’altra, sono lunghi».
Ha mai conosciuto il grande attore-drammaturgo napoletano?
«Da bambino abitavo nello stesso palazzo, a Roma, della sorella Titina: spesso andavo a trovarla, era affettuosa, mi raccontava tante storielle spiritose ma, quando sapeva che stava per arrivare il fratello, mi intimava “vattènne”, perché Eduardo non amava avere tra i piedi i ragazzini. Molti anni dopo, recitavo nell’“Avaro” di Molière, di cui era protagonista Mario Scaccia. Una sera c’era proprio Eduardo seduto in sala: al termine della messinscena, andò in camerino a salutare Scaccia, il quale ci coinvolse tutti per salutare il maestro. A me disse: sei stato bravo. E io, con timore reverenziale risposi: troppo buono maestro. E lui: tu sei bravo e lo sai! In un’altra occasione è accaduto un episodio divertente».
Che accadde?
«Ero andato al Quirino, per assistere al “Berretto a sonagli”, di cui era protagonista. Al termine, non pensavo di andarlo a disturbare in camerino, ma fu il direttore del teatro a insistere nel volermi portare da lui. Accettai di buon grado, senza sapere che, in realtà, mi aveva scambiato per il figlio di Eduardo e perciò aveva insistito!».
Assurdo!
«Quando entrammo in camerino, Eduardo si stava struccando. Il direttore esclamò contento: ti ho portato Luca! Lui si voltò irritato verso di me, esclamando: tu non sei mio figlio e lo sai!».
Tra i tanti personaggi interpretati, il più impegnativo?
«Il giudice Falcone nella miniserie di Rai1: una persona, non un personaggio. Mi sono preparato a lungo. A Palermo andai a visitare il quartiere la Kalsa, dove era cresciuto il futuro magistrato, ma dove erano cresciuti pure dei futuri malavitosi, con cui magari da ragazzino giocava a pallone e poi se li è ritrovati in tribunale. Andai a trovare le sorelle Anna e Maria, portando loro un mazzo di fiori. Mi accolsero affettuosamente, ci mettemmo a chiacchierare, sfogliando album di foto, di ricordi e alla fine mi dissero: è tornato a trovarci Giovanni. Mi venne la pelle d’oca: ero stato accettato dalla famiglia».
Il personaggio più imbarazzante?
«Preciso che ho frequentato le elementari in una scuola diretta dalle suore. Quando, parecchi anni dopo, ho messo in scena in un convento, davanti a una platea di monache, il volgare attaccabrighe “Truculentus” di Plauto, che è circondato da cortigiane, ho avuto seri problemi. Una commedia spassosa, ma talmente triviale che è stato necessario purgare il linguaggio, per adattarlo alle spettatrici. Ho “purgato” Plauto».
E quando su Rai2 ha indossato la tonaca di don Marco nella serie «Un prete tra noi»?
«È stato più facile. Il liceo l’ho frequentato proprio dai preti. Servivo anche la messa, ero rispettoso e infatti erano convinti che, da grande, avrei indossato l’abito talare!».
Recentemente ha raggiunto la bella cifra degli 80 anni...
«Una bella cifra ma – scandisce le lettere – “ho-tanta-voglia-di-averne di meno”...».
Le tournée, adesso sono più faticose?
«Non nascondo che andare in giro con la valigia sia stancante. Da tre anni dico che non voglio continuare a farlo, ma a casa mi annoio».
A novembre, al Teatro Franco Parenti di Milano, riprende il tour con lo spettacolo «Pirandello pulp» di Edoardo Erba e la regia di Gioele Dix...
«È una storia di amicizia e una storia “cattiva” come “Pulp Fiction”».
Se non avesse fatto l’attore, cosa avrebbe fatto?
«Rubo la battuta a Scaccia che, quando gli fecero la stessa domanda, rispose: avrei fatto l’attrice!».