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 2025  settembre 13 Sabato calendario

Intervista a Nicolas Ghesquière

È uno dei designer più «longevi» della sua generazione. Nicolas Ghesquière è alla guida di Louis Vuitton da dieci anni, di questi tempi è una rarità. Non sente il peso della responsabilità? «Vero, ma sono il solo. Da Balmain c’è Olivier (Roustaing ndr), per esempio. Credo che la parola sia resilienza. La pressione c’è, sicuramente. Devi sentire il momento, capire il mercato, conoscere le persone. Tutto cambia e noi non siamo spettatori, ma attori. Il lavoro di direzione artistica richiede anticipazione, intuizione e la capacità di proporre idee che corrispondano all’epoca».
Ha parlato di cambiamenti nel ruolo del direttore artistico. Può spiegarsi meglio?
«Quando ho iniziato, il ruolo era meno legato a strategia, politica e marketing. Anche a Balenciaga, dove ho lavorato, dovevo essere sensibile a questi aspetti. Ora sono normali parti del lavoro. Mi piace ascoltare i risultati e poi rispondere con un punto di vista personale, più che seguire richieste precise».
Come si integra il marketing nel suo lavoro creativo?
«Vuitton è la Rolls-Royce del sistema moda, con una storia ben costruita. Il marketing non è un termine negativo; l’ho integrato completamente, anche prima che diventasse così importante, senza compromessi sulla mia visione».
Non le piace l’idea del creativo isolato?
«No, perché non è vero. Io viaggio, parlo con le persone. Vado in boutique e nei department store, dove mi sento più anonimo. Mi piace osservare, toccare. Sono molto connesso alla vita reale del lusso».
Quando ha capito che sarebbe diventato stilista?
«Quando ho capito che mi avrebbe reso felice. Avevo 10-11 anni, disegnavo tanto. A 14 mio padre mi ha portato a Parigi. Camminavo per rue de Rivoli e ho detto ai miei: “È qui che voglio stare”. E così è iniziato tutto».
Qual è la sua prima memoria legata alla moda?
«Disegnare. Poi mia madre, che ammiravo per come si vestiva. E le riviste: tutti i soldi che mettevo da parte li spendevo per comprare Vogue. Ritagliavo le pagine, creavo i miei look».
È sempre stato mosso da curiosità e ricerca?
«Sempre. Non credo nella novità a ogni costo. Raffinare richiede tempo. Ogni stagione chiusa penso: posso fare meglio. Ammiro chi ha lavorato a lungo, come Lagerfeld o Armani. Il vero lusso è costruire uno stile che duri, con la giusta lentezza».
A Vuitton ha avuto il tempo per farlo?
«Sì. Nessuno mi ha detto: fai tre anni e poi vediamo. È una storia unica. Vuitton nasce da bauli e borse 170 anni fa. Marc Jacobs soltanto 26 anni fa ha fondato il prêt-à-porter, io sono arrivato dopo. Abbiamo riorganizzato atelier, boutique, distribuzione. Non è solo stile, è costruzione. E Louis Vuitton è di fatto una giovane donna che ha appena cominciato a vestirsi».
Com’è cambiata la sua visione della donna?
«Da Balenciaga era più architettonica, quasi statica. Da Vuitton è in movimento, veste in un attimo con una zip. L’architettura resta, ma oggi cerco capi più portabili, confortevoli, senza rinunciare alla ricerca. La donna Vuitton può sentirsi forte, bella, con semplicità».
Sì, i prezzi sono aumentati.
Per un po’ tutto è sembrato troppo disponibile, quasi senza valore. Ora le persone investono in pezzi che durano e che spesso acquistano valore nel tempo
E la sensualità?
«Non attivo il sexy gratuitamente. Non spingo sulla nudità. Credo in una sensualità più intima, non strumentalizzata. Conta come una donna vuole vestirsi per sé, non per lo sguardo degli altri».
Il logo: scorciatoia o eredità?
«Ho sempre amato il monogramma. Mi ricorda immagini iconiche come Catherine Deneuve o Jane Birkin. È elegante, è parte di una storia familiare che si tramanda. Non lo uso in modo eccessivo, preferisco creare nuovi codici, ma quando c’è, lo rispetto».
I prezzi del lusso oggi sono altissimi. Solo pochi possono permetterselo?
«Sì, c’è una frattura evidente. I prezzi aumentano per tante ragioni: i costi delle materie prime, della manodopera, l’inflazione. Ma per un po’ tutto è sembrato troppo disponibile, quasi senza valore. Ora le persone investono in pezzi che durano e che spesso acquistano valore nel tempo. Lo vedo anche con capi e borse del passato che oggi valgono di più».
Manca la terra di mezzo, cioè i prezzi medi…
«Sì, ed è sintomatico della società. Ma è importante creare oggetti che restino, che si desiderino a lungo. Per un periodo la moda sembrava usa e getta, come il fast fashion. Ma ora sostenibilità, crisi e nuove leggi stanno riportando equilibrio. Il lusso è diventato stile di vita: boutique, hotel, persino un cioccolatino»..
Il digitale, l’intelligenza artificiale… come li vive?
«Lavoriamo già con alcuni strumenti, è divertente. Ma c’è qualcosa di disumanizzato. Non sento una vera connessione. La creatività non può essere sostituita. Puoi usarla per calcolare i metri di tessuto, non per dirti come fare un abito. La creatività sei tu».
Chi è Nicolas Ghesquière fuori dalla moda?
«Qualcuno che ha bisogno di normalità. Camminare per Parigi quando posso, passare del tempo nella mia casa in campagna, vedere gli amici, fare sport. Viaggio molto – Los Angeles è una seconda casa – ma cerco di ritagliarmi dei momenti intimi, di equilibrio. Lavoriamo in un mondo straordinario, pieno di ispirazione, ma è importante restare con i piedi per terra. Fare cose semplici, vivere la vita vera».