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 2025  settembre 14 Domenica calendario

Intervista a Federico Tiezzi

La meraviglia si chiarisce definitivamente alla fine, all’ultima domanda (non la sveliamo, ci mancherebbe).
Federico Tiezzi è il teatro: quando parla vibra come le assi di legno del palco, alza e abbassa il sipario sulle parole, sui concetti, sulle immagini, sulla necessaria fisicità delle emozioni.
Quando riflette è come se fosse davanti allo specchio del camerino, lampadine accese, magari una fulminata (c’è sempre una lampadina fulminata), ma senza specchiare se stesso, piuttosto la storia di quelle assi, di quei sipari, di quel camerino e di tutti coloro che si sono seduti sulla stessa poltrona.
Federico Tiezzi in oltre cinquant’anni da regista ha seguito e assorbito i grandi, da Carmelo Bene a Luca Ronconi, ha affascinato e collaborato con il genio maledetto di Rainer Fassbinder, con il genio distruttivo di Mario Schifano. Ha portato i suoi spettacoli in giro per il mondo e il 26 settembre il suo Otello apre il Festival Verdi di Parma.
Secondo Iaia Forte lei e Carlo Cecchi siete dei maestri.
Siamo parte di un grande atlante del disorientamento attoriale; in realtà il nostro segreto è mandare in crisi gli attori. Forte lo conferma.
Cos’è il disorientamento?
Quello che stiamo provando tutti noi artisti: siamo in un momento in cui si è perso il senso della missione; quel senso che ha coinvolto la mia generazione, quindi Sandro Lombardi, con me nel lavoro e nella vita, poi Mario Martone, Toni Servillo, quindi i Teatri Uniti; (sorride) insomma, tutti i nipotini di Carmelo Bene.
Che è accaduto?
Improvvisamente, in questa omologazione teatrale, è più forte il disorientamento: è come se fosse stato già detto tutto. E alle volte, ciò che avviene, appare come solo una ripetizione.
Sensazione terribile.
(Sorride, tanto) Lo so, per favore alleggerisca le mie parole; a volte la sensazione è che la strada teatrale intrapresa dalle nuove generazioni sia falsamente moderna; la mia generazione artistica non solo realizzava spettacoli assieme, ma nello stesso tempo portava avanti altre esperienze comuni, magari un film, l’amore per un regista, da Orson Welles a Roberto Rossellini; da Luchino Visconti a Federico Fellini.
Condivisione.
Di più: esperienze vissute con la stessa carne; il gruppo era un corpo unico che respirava all’unisono; questo gruppo all’improvviso si è accorto che tutto ciò che stavamo realizzando era diventato manierismo e che gli spettacoli non avevano più una prospettiva.
Quando?
Verso la fine degli anni 80; da lì la riscoperta testuale dei personaggi, dell’interpretazione, ha messo in prospettiva tutto quello che noi portavamo in scena e pensavamo. E ha eliminato quella ripetizione all’interno della quale tutto era diventato asfittico.
E il rapporto con i testi classici?
La stagione dei classici stava tramontando: un tramonto non tanto come fine della loro validità, ma solo di quella automatica autorevolezza che esercitavano sul pubblico, sugli operatori, sugli attori. E scoprimmo che il classico non era più un monumento che necessita di una manutenzione costante, meticolosa.
Bensì…
Che poteva essere una fonte di attivazioni, di inneschi del contemporaneo.
Con Martone e Servillo vi incontravate per parlarne o era un sentire comune?
Non c’era bisogno di vedersi, di organizzare riunioni; tutto questo avveniva durante i festival, nei convegni insieme a critici di alto livello. Poi poteva pure capitare che queste compagnie, al tempo chiamate gruppi, si confrontassero, vedessero gli spettacolo degli uni e degli altri. Insomma, non c’era bisogno di dirselo, c’era come un clima, un suono; (pausa) come avrebbe sostenuto Walter Gropius, “il colore che ci piaceva di più era il multicolore”. Ognuno alla fine seguiva la sua strada.
Martone e Servillo hanno preso anche la strada del cinema, lei no.
Questa domanda me la sono posta pure io.
E… ?
La risposta è nella concretezza del corpo fisico. Sono anche artista visivo e da quattro anni sto lavorando su una serie di ritratti basati sulle Vite di Giorgio Vasari: in quella ricerca artistica mi sono accorto del mio interesse verso il viso e lo sguardo dell’attore. Non si può girare un intero film basandosi esclusivamente sul viso; non solo: quando creo delle opere video mi manca il corpo umano, la sua grazia, il suo essere vivo, la sua esperienza e quell’esperienza non la fermo solo sull’immagine racchiusa nella macchina da presa, c’è un’esperienza che fluidamente fluisce e conquista.
Quindi non è per integrità teatrale.
No, piuttosto è integralismo; insieme a un gruppo di artisti siamo stati i primi a portare dei video dentro lo spettacolo: nel 1979 uno di questi l’ho realizzato con Mario Schifano.
Avete collaborato.
Dall’anno dopo e a Napoli dovevamo portare la Madama Butterfly, tanto che Schifano iniziò a realizzare dei disegni che ho ma, alla fine, come era lui, cambiò idea.
L’aveva messo nel conto.
Ero consapevole del suo carattere mutevole.
In una vecchia intervista ha definito il teatro come “imprendibile”. È anche artista visivo perché l’arte è più prendibile?
È esattamente così. Ho iniziato con un teatro che comprendesse i video; nel documentario di Fassbinder dedicato al mio lavoro, Theater in Trance, c’è la testimonianza dell’uso dei video, esperienza successivamente diventata sporadica, ma ripresa una decina di anni fa.
Come mai?
Il bello del teatro è che ti cola tra le mani, che uno spettacolo dura un tempo limitato; poi siccome una delle mie massime aspirazioni è contraddirmi, posso affermare che non è vero: questa estate a Spoleto abbiamo ripreso uno spettacolo di trent’anni fa, dedicato a Giovanni Testoni, con l’interpretazione di Sandro Lombardi.
Secondo Sandro Lombardi teatro e vita s’intrecciano. Per lei?
Tutto con lui s’intreccia, mentre per me il teatro è creare un altro mondo, un mondo di massima felicità; (ci pensa a lungo) il teatro non è tanto lo strumento per costruire uno spettacolo, ma lo strumento per costruire un mondo. E lo spettacolo è solo il modo per rivelare la scrittura, il linguaggio attraverso il quale il mondo si parla.
Semplice.
Quando mi confronto con i giovani attori nella nostra scuola di Pistoia, gli spiego che la scuola non è una scuola per fare teatro, ma scuola e teatro sono la stessa cosa.
Avverte una responsabilità artistica?
Il regista deve realizzare uno spettacolo didattico, come didattici erano le commedie di Aristofane o le tragedie di Euripide. Il regista e l’attore dovrebbero essere portatori di un linguaggio scenico che all’interno di questo ecosistema, che è il teatro, attraverso la connessione dei vari linguaggi si connetta al mondo e lo ricrei sulla scena.
Sempre secondo Iaia Forte oramai sono tutti attori.
(Ride, tanto) I suoi aforismi sono filosofici. Ma avviene più nel cinema, mentre il teatro ha ancora un filtraggio dovuto alla sua storia, per cui l’ecosistema teatrale, quello ecologico, dà spazio a queste nuove piante, ma alcune crescono, altre… (resta in silenzio)
Fanno la fine del basilico.
Quello acquistato al mercato, convinti possa durare una vita, mentre dopo tre giorni si secca.
Luca Ronconi per lei.
Mi ha fatto capire che il teatro non è il luogo dell’intrattenimento. Che, appunto, il teatro è il laboratorio del linguaggio di un Paese; che è il luogo di trascrizione di una parola nuova.
La connessione con il Paese si è persa?
La mia età mi permette di guardare la situazione come dall’esterno: le nuove generazioni a volte non hanno la capacità di riformulare un testo, magari scritto da loro stessi. Sono afoni.
Perché?
(Sospira) Non ho frequentato l’accademia, sono uno storico dell’arte.
Le dispiace?
Scherziamo? Ne sono fiero, come ne sono fieri Sandro Lombardi o Carlo Cecchi.
Addirittura fiero.
L’Accademia di Arte Drammatica la fanno gli insegnanti e sono molti anni, dopo l’addio di Luca Ronconi e pochi altri, che non vedo dei professori capaci di traghettare un giovane attore dal suo mondo, e dalla totale inflazione dell’immagine, al teatro dove c’è la necessità di costruire quel mondo alternativo.
Ronconi torna spesso.
Assistendo alle sue prove ho capito come affrontare recitativamente un testo, ho capito che c’era la possibilità di ribaltare una testualità per farlo parlare alla nostra carne viva.
Ronconi dava i toni agli attori. Lei?
Do la mia idea, poi il lavoro consiste nello sviluppare la direzione adatta all’attore.
Lavoro di gruppo.
No, quello avviene con i grandi: con loro è come giocare a tennis.
Sinneriano?
In realtà mi piacciono di più Alcaraz o Djokovic; in Djokovic trovo l’artista. Ma poi non ho tutto il tempo per queste cose.
Com’è cambiata la sua concezione del tempo?
Prima me la prendevo comoda, ora voglio realizzare quello che ho in testa, come i ritratti vasariani, ai quali pensavo dai tempi dell’università
Carmelo Bene.
L’ho conosciuto nel 1972, quando io e Lombardi andammo a Pisa per vedere la prima del Pinocchio. Lui era tutto genio. Il linguaggio di quel Pinocchio è entrato nelle nostre vite, nella nostra quotidianità. Quello spettacolo è stata un’emozione fonetica, sonora, totale.
Da bambino a cosa giocava?
A due cose: indiani e cowboy e amavo costruire teatrini grazie alle scatole di cartone.
Pallone, mai.
Anche, ma ero un grande attaccabrighe, per cui si passava il tempo a discutere sui passaggi, sui falli e altro. Quindi preferivo inventare storie di lotta tra indiani e cowboy.
Il militare lo ha fatto?
Per un periodo, ma da neolaureato mi misero dentro un ufficio: battevo a macchina tutto il giorno. Due palle. Poi grazie a Dio presi la polmonite, e in forma grave.
Bene.
A quel tempo la compagnia lavorava tantissimo nei Paesi Bassi, eravamo quasi di casa ad Amsterdam; mentre ero sotto il militare, Lombardi la teneva in piedi. Quando avevo qualche giorno di permesso, di nascosto, partivo e li raggiungevo.
All’estero?
Proprio ad Amsterdam, o Parigi, Bruxelles.
Bel rischio.
Quello che mi ripeteva mio padre, con l’aggiunta di un “sei matto?”.
Lei e Lombardi insieme da una vita: Eduardo De Filippo proibiva le storie d’amore dentro la compagnia.
(Silenzio) Non lo sapevo. E non aveva tutti i torti; (sorride) dentro la compagnia, come rapporto sentimentale, bastiamo io e Lombardi.

La tv la guarda?
Ieri sera ci ho pensato, poi mi sono detto: ho un libro da finire. E non l’ho accesa.
Lei chi è?
Una volta volevo scrivere un testo per il teatro in cui la mia vita fosse ricostruita attraverso dei testimoni diretti. Perché i registi sono un po’ dei fantasmi del palcoscenico. Quando mi domandano “che lavoro fai?” e rispondo “il regista”, subito l’interlocutore aggiunge “di cinema?”, “no, di teatro”. “Di teatro? E in che cosa consiste?”.
E in cosa consiste?
Si tratta di riportare in vita gli scomparsi. Ecco, il mio compito è esattamente questo: sono colui che riporta in vita gli scomparsi.