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 2025  settembre 12 Venerdì calendario

La fobia della Storia nella Russia di Putin

La paura della memoria e il desiderio di controllare la storia per poterne determinare gli sviluppi sono esperienze antiche, che nel secolo scorso hanno avuto anche delle illustrazioni letterarie indimenticabili: basti pensare al Miniver, il Ministero della Verità inventato da Orwell in 1984, il cui compito era appunto quello di riscrivere la storia, «tante volte quante si sarebbe reso necessario», perché nessuno potesse minimamente ricordare cosa era successo davvero e sulla base di questa vecchia realtà mettere poi in piedi una qualche opposizione al potere. Così nasceva la neostoria e la corrispondente neolingua; e allora: non “Ministero della Verità”, che magari faceva ancora sospettare un’operazione losca, ma un criptico “Miniver” che non si ha il tempo di decrittare, mentre chi domina la lingua ha tutto l’agio di far passare, dietro la novità linguistica, una ben più inquietante realtà e cioè che in quella nuova storia non si tratta di verità o di fatti, ma di interpretazioni o più sinistramente, come diremmo oggi, di “fatti alternativi”. E così adesso, a più di tre anni dal suo inizio (più di dieci se si parte dall’annessione della Crimea), non abbiamo più a che fare con una guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina – le cui ragioni potremmo interpretare all’infinito – ma con quella che ufficialmente continua ancora a chiamarsi una “Operazione Militare Speciale”, secondo una formulazione nella quale il fatto brutale di una guerra si nasconde dietro i contorni “alternativi” di una “operazione” che, in quanto tale, è già in partenza meno discutibile di una guerra e viene quindi presto derubricata fra le tante cose normali o di poco conto, di cui non merita neppure discutere.
Il paradosso di questa neolingua è che non lascia il posto nemmeno per la relatività dei diversi punti di vista e delle diverse interpretazioni, ma chiude lo spazio alla discussione stessa, sostituendo la realtà, e le domande che essa può suggerire, con un nome vago che impedisce anche il solo affacciarsi di una domanda. È un gioco linguistico che la Russia e, prima ancora, l’Unione Sovietica avevano già inaugurato con l’espressione Grande Guerra Patriottica al posto di Seconda Guerra Mondiale; un’espressione, la prima, certo giustificata dal grande tributo umano sovietico ma, soprattutto, fatta apposta per impedire una domanda scomoda: se si parlava di Grande Guerra Patriottica, iniziata il 22 giugno del 1941 con l’aggressione nazista dell’Unione Sovietica, si poteva evitare di chiedersi dove stesse l’Unione Sovietica nel settembre 1939, quando per tutti, con l’invasione nazista della Polonia (1° settembre), era iniziata la Seconda guerra mondiale, e quando la stessa Unione Sovietica aveva invaso a sua volta la Polonia, solo poco più di due settimane dopo le armate naziste (17 settembre). Si era cambiato e si cambia il nome per non lasciarsi interrogare circa la legittimità di quello che si stava facendo o si era fatto: le due invasioni non erano iniziate per caso, perché «così vanno le cose nella storia» o perché ci sono cose che accadono in «conformità alle ferree leggi della storia», ma perché, appena qualche giorno prima (23 agosto), nazisti e sovietici avevano stipulato un trattato di non aggressione, il patto Molotov- Ribbentrop, che prevedeva la comune spartizione dell’Europa. Così, appunto, nel caso della guerra con l’Ucraina, si è preferito parlare di “Operazione Militare Speciale”, un’operazione al pari di tante altre, militare, chirurgica, profilattica, come ai tempi del grande terrore si parlava di misure di “profilassi sociale” per indicare la lotta contro gli elementi “antisociali”, ma in realtà si intendeva l’arresto e l’invio nei campi di lavoro per ogni possibile od “oggettivo” oppositore; mentre oggi si intendono le misure per evitare la diffusione del contagio occidentale. Poco importa poi che queste misure siano applicate in spregio del diritto internazionale, e tanto meno importa se questi diritti sono sostituiti «dal presunto diritto di obbligare gli altri con la forza». E là dove non bastano né la profilassi né la rielaborazione linguistica, interviene la riscrittura diretta della storia. Non è un caso che Putin abbia un interesse particolare per la storia; ed è anche stato fatto notare da linguisti e storici autentici, come ad esempio Nicolas Werth che, per bollare questa pretesa, si è preso gioco di Putin pubblicando un libretto col provocatorio titolo di Putin storico in capo (Einaudi, 2023); allo stesso modo non è un caso che, dopo il profluvio di libri di testo che aveva caratterizzato il periodo “democratico” della perestrojka, si sia passati oggi al testo unico di storia (V.R. Medinskij – A.V. Torkunov, Istorija Rossii…[Storia della Russia], Prosvešcenie, 2023), preparato con la consulenza dell’Accademia delle Scienze e della Società Storica Russa, il cui presidente (dettaglio abbastanza inquietante) è Sergej Naryškin che (non) casualmente è anche il direttore dei Servizi Segreti Esteri, dove l’identità russa viene costruita attraverso la pura contrapposizione all’Occidente e questa contrapposizione viene poi trasferita anche al passato, creando il mito di una Seconda Guerra Mondiale vinta dalla sola Unione Sovietica, unico baluardo contro un nazismo che avrebbe oggi la sua nuova incarnazione proprio in un Occidente per il quale l’Ucraina non sarebbe nient’altro che il braccio armato...
Non è solo la storia reale, però, a essere diversa dalla narrazione ufficiale; diversa è anche la memoria di una parte significativa della gente, come ha mostrato una recente inchiesta di «Meduza», un organo di informazione indipendente basato all’estero, che ha mostrato come in molti la memoria della vittoria non sia affatto quell’apoteosi della grandezza militare e dell’odio sulla quale tanto insiste la propaganda, ma piuttosto il ricordo degli immani sacrifici sopportati dalla gente semplice e di una tragedia dalla quale si era usciti per garantire non la possibilità di nuove vittorie, ma un futuro di pace; scriveva recentemente Aleksej Gorinov, uno dei tanti detenuti di coscienza oggi presenti in Russia: «Attraverso tutte queste sofferenze sono passati i nostri padri. E avendo sperimentato tutti gli orrori della guerra, avendola conosciuta in tutti i suoi aspetti, ci hanno lasciato in eredità il compito di custodire la pace. Custodire significa fare tutto il possibile, tutto ciò che dipende da noi, perché la guerra non ci sia. Qui sta il nostro dovere storico nei confronti delle generazioni dei nostri padri, che hanno combattuto per garantirci una vita pacifica. Per questo li commemoriamo» (cfr. “La Nuova Europa”, 24 maggio 2025). Oggi, in questa fase di radicale rilettura della storia e di ancor più radicale ripensamento dei destini dell’umanità, si parla molto in Russia, e non solo in Russia, di come resistere all’avanzata di una mentalità che oblitera non solo singoli valori, ma l’umano stesso; e a volte si adombra addirittura l’immagine di una resistenza all’anticristo, come è stato fatto nel Documento finale del XXV Concilio mondiale del popolo russo (cfr. “La Nuova Europa”, 18 aprile 2024), in cui si parla della Russia come baluardo (kathécon) contro il satanismo occidentale, con le infinite discussioni su chi sia realmente questo anticristo, e se la resistenza debba essere o meno violenta, nella totale dimenticanza della domanda fondamentale: non chi sia l’anticristo, ma chi vogliamo essere noi. In fondo è la domanda che un grande russo di un secolo fa, Vladimir Solov’ëv, poneva alla Russia in una poesia intitolata Ex Oriente lux: «Ma quale Oriente vuoi dunque tu essere: / l’Oriente di Serse o di Cristo?».