repubblica.it, 12 settembre 2025
Intervista a Vittorio Pettinato
Trecentoquarantamila follower su Instagram, le imitazioni del sindaco di Roma Roberto Gualtieri, di Max Mariola e Paolo Crepet, una fitta galleria di personaggi dell’Italia di oggi, da quello che va a vivere nel bosco al reduce del cammino di Santiago, fanno di Vittorio Pettinato, trent’anni il prossimo 22 dicembre, un comico da seguire.
Ricorda quando ha cominciato con le imitazioni?
“Prestissimo. Già a quattro anni, al centro estivo in oratorio, imitavo i salesiani. Mi piaceva fare il verso a quelli di Striscia la Notizia, e infatti un giorno gli animatori mi dissero: “Tu il pomeriggio farai teatro”.
I suoi l’hanno incoraggiata?
“Lavorano in ospedale, in famiglia non c’è nessuno che viene dallo spettacolo. Ma da ragazzino mamma mi portò a vedere uno spettacolo di Corrado Guzzanti. Imitava Tremonti, Bertinotti, quel tormentone guerra brutto, droga brutto fu una rivelazione. Conservo ancora il biglietto d’ingresso”.
È stato il suo modello?
“Il mio modello in realtà è sempre stato Fiorello, perché faceva le imitazioni. Con papà ascoltavamo Viva Radio 2 in macchina, la trasmissione con Baldini”.
Cosa la colpì?
“Imitava La Russa, Di Pietro, Muciaccia. Lo ascoltavo e volevo essere come lui. Tempo fa l’ho conosciuto al Festival della Comunicazione di Camogli, pendevo dalle sue labbra…”.
Fiorello sapeva chi era lei?
“No, gliel’hanno detto lì. Ed è stato incredibile perché sembrava che fossi suo amico”.
Cosa ammira nei grandi?
“Mi piace chi sa comunicare bene. Benigni che recita Dante a memoria è una grande emozione”.
Gli imitati la prendono tutti bene, o no?
“Sì, sono divertiti. Crepet mi ha detto: “Preserva la tua libertà nell’essere creativo”. Quando ho cominciato mi sono dato due regole: uno stile alto e personaggi nuovi. Non potevo mettermi in concorrenza con Crozza. Così ho puntato su Galimberti, Gratteri, Saviano, Mariola”.
Mariola è stata la svolta?
“Con lui sono iniziati i grandi numeri. Poi abbiamo anche fatto delle cose insieme”.
E con Gualtieri com’è andata?
“Vedevo i suoi video e mi piaceva il modo con cui rendeva partecipi i cittadini”.
Gualtieri passava per sindaco noioso.
“Invece racconta la quotidianità in modo semplice ed efficace, ti senti coinvolto nel cambiamento. A Milano non ci siamo abituati. Sala non racconta quello che sta facendo”.
E così ha preso a imitarlo.
“Sì, tipo che si sveglia alle quattro del mattino per andare a filtrare il Tevere. E funzionava. Allora quelli del mio staff hanno contattato quelli del suo entourage e alla fine abbiamo fatto una cosa insieme sui cestini per l’immondizia Cestò”.
Che impressione le ha fatto?
“Mi è sembrato di conoscerlo da sempre. Alla fine mi ha regalato un minicestò, che per me vale più di un tapiro”.
Qual è stato il suo primo lavoro?
“Come social media manager di un parrucchiere, lì il mio cognome mi ha aiutato. È stato il mio primo lavoro dopo la laurea, in lettere, con una tesi sul concetto di cammino in Dante Alighieri e Primo Levi”.
Oggi anche un parrucchiere ha bisogna di un social media manager?
“Ormai anche i preti sono influencer. Comunque lì mi sono impratichito dei social, ho imparato a fare i video, mio cugino di Montà d’Alba, nel Cuneese, mi ha fatto appassionare al montaggio dei video”.
È subito sbarcato su Instagram?
“No, prima su Tik Tok. Per un anno ho fatto un video al giorno, perché i social premiano la costanza. Poi ho capito che fare solo imitazioni sarebbe stata una trappola”.
Non sono state una chiave per avere un suo pubblico?
“All’inizio le facevo perché la mia voce non mi piaceva. Poi ho cominciato a crearmi dei personaggi miei. Volevo esprimere la mia di voce, avere uno sguardo proprio”.
I suoi personaggi come nascono?
“Dall’osservazione, dai social, dai racconti degli amici a cena. Oggi in tanto vogliono avere una nicchia nella quale eccellere, presentarsi al meglio e venderti qualcosa e diventare famosi”.
Essere influencer?
“Sì, ma anche qui mi sono dato uno stile. Non voglio essere una persona che dall’alto vede e giudica. Spesso mi ci rivedo in questi personaggi. Io quando sono al mare vorrei trasferirmi al mare, vivere di surf tutta la via. Vado una settimana in montagna e vorrei starci tutta la vita. Se andassi in Africa tornerei invasato pure io”.
Qual è la sua ambizione?
“Far ridere. Sin da piccolo volevo solo far ridere”.
C’è questa ossessione del viaggiare.
“Tutti parlano sempre di viaggiare, andare ovunque”.
Esprimono una nevrosi?
“Sì, che i social amplificano. Bisogna apparire. Bisogna vendersi”.
Ci stiamo vendendo?
“Forse sì. Abbiamo sempre questo bisogno di presentarci al meglio, di esprimere la propria identità con esperienze effimere e polarizzanti”.
Alla fine prende in giro questo nostro tempo.
“Un altro tema è l’indignazione. Siamo veramente tutti continuamente indignati di qualcosa, tutti dobbiamo urlare allo scandalo, io cerco sempre di vedere il positivo nelle cose, però l’indignazione è uno degli argomenti che probabilmente userò per la mia comicità”.
Come nasce il personaggio che torna dal cammino di Santiago de Compostela?
“Il cammino l’ho fatto anch’io, quindi molte le cose le ho vissute in diretta, mi ha offerto un sacco di spunti. Ero iscritto alla facoltà di legge, ma non ero contento, non mi piaceva. Mi sono imposto di decidere cosa fare della mia vita durante il tragitto, e quando sono tornato ho mollato giurisprudenza per lettere”.
Una scelta giusta?
“Ho fatto poi uno spettacolo su Dante, Dantemporaneo, col professore di Lettere con cui mi sono laureato”.
In che famiglia è cresciuto?
“I miei sono calabresi, papà di Lamezia Terme, mamma di Delianuova, entrambi erano venuti a Pavia per studiare, si sono conosciuti nel collegio che li ospitava. Io mi sento pavese, ho vissuto sempre qui, fino alla laurea, ma so imitare il calabrese. In vacanza intrattenevo le nonne, giù”.
Che tipo è?
“Uno che si alza prestissimo, anche in vacanza, voglio essere il primo che si alza. Mi piace la mattina, come momento per scrivere la giornata. A scuola, ho fatto il liceo scientifico, arrivavo sempre un’ora prima…”
Un’ora prima?
“Mi piace essere il primo ad arrivare, è una cosa che mi è rimasta. Mi piaceva da ragazzo girare per la città di buon mattino, stare con gli amici, rintanarci in qualche bar, mangiare le focacce. Naturalmente nell’attesa delle lezioni li intontivo con sketch e imitazioni”.
Come vede i trentenni di oggi?
“Siamo buoni, privi di grandi cattiveria o rivalità. È come se ci compatissimo a vicenda. Ci diciamo: “Chissà se ce la caveremo”.
Siete cresciuti a pane e social.
“Non esattamente. Non come la Generazione Z. Siamo un ibrido. Io dopo la scuola guardavo Melevisione su Rai3”.
Non ha frequentato una scuola di recitazione?
“Solo un corso propedeutico alla Paolo Grassi, mi hanno chiesto di recitare un passo della Tempesta di Shakespeare. Successivamente a Roma ho conosciuto Giuliano Rinaldi, un autore che produce spettacoli e programmi tv, che mi ha dato una mano a fare le prime cose”.
Lei vive facendo l’attore?
“Da due anni sì. Da gennaio vado nei teatri con un mio spettacolo, Centro di vanità permanente, sono un grande fan di Battiato”.
Far ridere è una fatica?
“Mi viene naturale. Però ho anche i miei momenti di serietà, anzi mi piace molto essere serio”.