la Repubblica, 12 settembre 2025
Montale e Mulas la fotografia di un incontro
Eugenio Montale fissa negli occhi l’upupa. Sfida o complicità? Il suo alter ego volatile ricambia lo sguardo anche se è impagliato (un dono di ironici amici). L’upupa: «ilare uccello calunniato dai poeti». Il poeta guarda l’«aligero folletto» con benevolenza, forse un mezzo sorriso. I due si capiscono. Montale è poeta, pochi anni dopo questo ritratto sarà premio Nobel per la letteratura (1975) ma ce l’ha coi «poeti laureati» che cantano solo piante «dainomi poco usati: bossi ligustri o acanti». Lui preferisce, lo sappiamo, «i pruni e gli sterpi». Il poeta antidannunziano è complice dell’upupa. E il fotografo Ugo Mulas, che fin dalle scuole medie sa a memoria le sue poesie, ne è cosciente quando lo mette in questa posa, che diverrà un’icona.
Un doppio anniversario tondo celebra quest’incontro. Ossi di seppia uscì un secolo fa, nel 1925, per le edizioni di Piero Gobetti. Mentre la serie che Mulas, gigante della fotografia del Novecento, dedicò a quel libro, uscì sessant’anni fa, nel 1965. Il ritratto invece è successivo: del 1970. Che è anche l’anno in cui a Mulas venne diagnosticata la malattia che lo portò via tre anni dopo. Per lui fu il momento in cui capì di volersi liberare da un cliché, quello di “fotografo degli artisti”, per farsi filosofo dell’operazione fotografica, con le sue Verifiche,capolavoro di pensiero visuale e visualizzato.
A Montale, come per pagare un debito di riconoscenza, fa dunque un ritratto-soglia. Al momento di questo ritratto, Mulas ha 42 anni, Montale 74. La distanza di una generazione. Un figlio di fronte a un padre, un discepolo di fronte al maestro. A scuola, Mulas aveva amato Saba, Ungaretti, Cardarelli, Quasimodo. Ma Montale è l’unico con cui si confronta quando diventa lui stesso un poeta dell’immagine. Poesia e fotografia, ha detto una scrittrice, sono “nemiche intime”. Attratte passionalmente da ciò che le separa. Dall’invettiva di Baudelaire in poi, l’antinomia fascinazione-repulsione èevidentissima. Lo ammette con riluttanza un tardo baudelairiano, il poeta francese Yves Bonnefoy. Le fotografie, scrive, sono pericolose per la poesia per colpa dell’«infimo dettaglio» che «mostra che le cose esistono in quanto tali, in una materialità irriducibile allo spirito». Fotografare la poesia è quasi un ossimoro.
Quando Mulas decide di osare,Ossi di seppia ha dunque già quarant’anni di stagionatura. Montale aveva scritto quei versi in un’Italia ben diversa da quella di Mulas. Il ventenne Eugenio aveva già incontrato il suo “male di vivere”, esistenziale poetico ma anche sociale e politico. Il suo far versi non corrispondeva alla retorica del regime incipiente. Ma quando Mulas lo interpreta, Montale è già un poeta adulto, se non senile, e molto diverso. Ancora tormentato dall’insufficienza dell’esistere, ma ora deluso da una democrazia che si è rivelata intellettualmente, eticamente, umanamente mediocre. Mentre Mulas in quegli anni è nel pieno della sua opera monumentale di racconto dell’arte, ed è abituato ad artisti che producono oggetti visuali, criptici magari, ma tattili, materiali. Come mostrare oggetti mentali che non significano quel che sono? Si preoccupa: «È facile cadere nella banalità perché alcuni versi sono già così visualizzati che tentare di renderli figurativamente non aggiungerebbe nulla». Sceglie di non mettersi in competizione, né in ginocchio. Di accostarsi a quel libro in modo mimetico, ma non rispetto alle parole: rispetto all’esperienza corporale che li generò. Insomma, decide diandare negli stessi luoghi, di fronte agli stessi scenari che ispirarono a Montale la sua raccolta di versi. Va alla casa di Monterosso dove Montale spese le sue estati giovanili, luogo poi rinnegato e abbandonato dal poeta, amareggiato e deluso da una dissennata antropizzazione alberghiero turistica.
Ma il luogo è un pretesto. Le fotografie dovranno essere «una verifica, diciamo quasi oggettiva, della verità di questa casa di Montale». C’è la parola verifica, cardine del pensiero di Mulas. La fotografia non descrive, non spiega,ma verifica, parola che oscilla fra il significato di “rendere vero” e quello di “controllare se è proprio vero”.
Con una Rollei 6x6, macchina che usa raramente, ma che sceglie perché vuole fotografie nitide e ben incise, meditate e lente, affronta l’impresa. Il risultato, a parte le immagini antologizzate e mostrate qua è là, è ancora visibile nella forma originaria solo nella sua prima destinazione: uscì su Pirelli, ambiziosa rivista eponima dell’impresa industriale, con undici foto su dodici pagine nel numero del dicembre 1965, accompagnato da un breve testo del critico letterario Giorgio Zampa, che alle immagini non fa riferimento. Ma nelle pagine successive la sequenza delle fotografie di Mulas, una per pagina, è accompagnata da citazioni di versi di Ossi di seppia,scelti verosimilmente da Zampa stesso.
Un abbinamento fin troppo referenziale basato su parole chiave e assonanze, che sembra il contrario del “correlativo oggettivo” poetico che Mulas aveva in mente. Certo, sono fotografie di paesaggio. Sono spesso vedute dall’alto, con l’orizzonte emarginato e uno spaesamento delle coordinate cartesiane. Un paesaggio ripetitivo. Insistente. Volutamente insistente. Mulas spiega di aver voluto «trovare quegli elementi che ritornano, dare un’idea di quanto il poeta sia stato fedele ai luoghi della sua infanzia», a un mondo piccolo, limitato dalle possibilità di movimento di un ragazzino. C’è l’insistenza delle lunghe estati noiose di un adolescente riflessivo e tormentato. Animate però da una sorpresa magica: il minuscolo bagnante sdraiato a braccia e gambe aperte sulla rena, laggiù, spiaggiato «come una stella marina». Non c’è, l’omino-stellamarina, nei versi di Montale, ma c’è il suo fantasma, perché la raccolta parla di una metamorfosi dell’umano nell’animale, nel vegetale e nel minerale… L’osso di seppia è il relitto materiale di un essere vivente, la sua anima minerale, la sua sopravvivenza al mondo dopo che la vita è fuggita. Una voce non documentata sostiene che Montale, sfogliando la rivista assieme a un Mulas trepidante, esclamasse: «Ma come hai fatto, come hai fatto!».