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 2025  settembre 12 Venerdì calendario

Una mano bionica in grado di restituire il senso del tatto: negli Usa parte una sperimentazione su 12 pazienti amputati

Restituire il tatto a chi ha perso un arto superiore: un obiettivo che fino a pochi anni fa sembrava appartenere alla fantascienza. Oggi, invece, diversi gruppi di ricerca negli Stati Uniti, in Svezia e anche in Italia stanno conducendo studi e sperimentazioni su protesi bioniche che sono in fase avanzata. L’ultima, a Cleveland (Usa) coinvolgerà dodici persone amputate. Grazie a un finanziamento da 9,9 milioni di dollari del Dipartimento della Difesa statunitense, i ricercatori della Case Western Reserve University e del Louis Stokes Cleveland Department of Veterans Affairs Medical Center testeranno nei prossimi quattro anni la protesi iSens, una neuroprotesi in grado di restituire il senso del tatto attraverso segnali nervosi. 
La tecnologia si chiama «iSens» (Implanted Somatosensory Electrical Neurostimulation and Sensing system). Funziona con una rete di elettrodi impiantati nel braccio che rilevano i movimenti muscolari e inviano stimoli elettrici ai nervi, trasmettendo al cervello sensazioni tattili dalle dita della mano artificiale. Un dispositivo neurale impiantato comunica via Bluetooth con la protesi. «Le persone che hanno perso un arto superiore meritano tecnologie migliori che possano migliorare le loro vite», spiega Emily Graczyk, professoressa di Ingegneria biomedica e coordinatrice della sperimentazione.
Secondo i primi test, la differenza è sostanziale: chi prova la protesi sensoriale riferisce di sentirla come parte del corpo e non più come un oggetto esterno. «Avere un senso del tatto migliora molti aspetti della qualità della vita», sottolinea Graczyk, «inclusi il senso di connessione con i propri cari, l’autonomia, l’immagine di sé e l’interazione sociale».
Lo studio durerà 18 mesi e si articolerà in tre momenti: 1) tre mesi di monitoraggio con la protesi attuale, seguiti dall’impianto chirurgico degli elettrodi e dalla configurazione del sistema iSens; 2) uso alternato della protesi tradizionale e di quella sensoriale, con questionari e controlli mensili; 3) divisione casuale dei partecipanti in due gruppi, uno con solo il tatto abilitato e l’altro con solo il controllo motorio avanzato. Poi i ruoli verranno scambiati.
«Ci aspettiamo che la nostra neuroprotesi renda la vita migliore per le persone con amputazione», spiega Graczyk. «Ma non sappiamo se il fattore più importante sarà il miglioramento della sensazione o del controllo, o entrambi».
La ricerca non parte da zero. Dal 2015 Case Western Reserve ha ricevuto 14 milioni di dollari dalla DARPA, l’agenzia del Pentagono che finanzia progetti innovativi. Da allora, Graczyk e il collega Dustin Tyler, professore di ingegneria biomedica e direttore dell’Human Fusions Institute, hanno sviluppato la tecnologia e i protocolli di stimolazione.
«Il finanziamento significativo ci permette di portare avanti questa sperimentazione clinica che non necessariamente riceverebbe investimenti venture capital a questo stadio», osserva Tyler. «Questa sovvenzione ci permetterà di rimuovere un grande ostacolo alla traduzione della tecnologia».
Il vero obiettivo è tradurre l’innovazione in una tecnologia disponibile per i pazienti. Oggi, infatti, molte persone amputate rinunciano a usare la protesi perché faticosa, poco intuitiva e priva di sensibilità. Con il tatto, invece, l’esperienza cambia radicalmente. Gli stessi ricercatori sono rimasti colpiti da come i volontari descrivessero la mano artificiale non più come uno strumento, ma come una parte viva del proprio corpo.
Anche nel nostro Paese la ricerca corre veloce. Alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, insieme all’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), lavora da tempo sulle neuroprotesi un team guidato dal professor Silvestro Micera, docente di Bioingegneria presso l’Istituto di BioRobotica e  pioniere della neuroingegneria.
«La tecnologia utilizzata a Cleveland è concettualmente simile e stiamo competendo da almeno dieci anni, ma con grande amicizia», racconta il professor Micera. «Loro usano un controllo intramuscolare con elettrodi nei muscoli, noi invece elettrodi multicanale non invasivi. Sul lato sensoriale, loro impiegano elettrodi epineurali, noi intraneurali, più invasivi ma capaci di fornire una maggiore ricchezza di sensazioni».
Il progetto italiano punta sulla nuova versione della protesi Hannes, la mano protesica di derivazione robotica sviluppata dal Rehab Technologies Lab, il laboratorio congiunto nato nel dicembre 2013 dalla collaborazione tra l’Inail e l’Istituto italiano di tecnologia (IIT). «Speriamo di avere il primo paziente full implanted entro la fine del 2026», anticipa lo scienziato.
Gli impianti sono sicuri? L’esperienza finora accumulata dice che è così. «Abbiamo seguito sette-otto pazienti fino a sei mesi senza problemi. A Cleveland, 4 o 5. È ormai chiaro che non ci sono danni e i benefici sono evidenti: riduzione del dolore da arto fantasma, uso più naturale della protesi, maggiore sicurezza nelle interazioni», spiega Micera.
Uno dei ricordi più forti viene dagli Stati Uniti: «Un paziente ha detto: per la prima volta ho sentito la guancia di mia figlia», racconta Micera, citando il collega Dustin Tyler. Il limite attuale, sottolinea, è che la maggior parte degli esperimenti si svolge ancora in laboratorio. «Ben vengano quindi i finanziamenti a loro e il lavoro che stiamo facendo noi con l’Inail, per portare questa tecnologia finalmente in clinica davvero».
Sul futuro, Micera è realista: «Per avere l’ok dall’FDA o il marchio CE servono sperimentazioni su molti pazienti. Quindi ci vorranno almeno dai 5 ai 10 anni, prima di poter rendere le protesi disponibili per tutte le persone che ne hanno bisogno. Inoltre l’amputazione dell’arto superiore è una condizione rara: è difficile avere numeri e finanziamenti».
La speranza è che, se le sperimentazioni andranno a buon fine,  le grandi aziende inizino a investire: «Quando noi, Dustin, Emily e altri avremo dimostrato che funziona, allora forse  si convinceranno davvero». 
Il progetto americano e quello italiano, pur seguendo strade tecniche diverse, hanno un obiettivo comune: riportare il tatto nelle mani artificiali. Non si tratta solo di recuperare funzionalità meccaniche, ma di ridare ai pazienti la possibilità di sentire, afferrare, accarezzare. Come conclude il professor Micera: «Da parte mia sono contento se fra un anno o due, oltre alla nostra, ci sarà anche la protesi di Cleveland. Questo vuol dire che possiamo offrire ai pazienti tecnologie sempre più avanzate e quindi una qualità di vita sempre migliore».