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 2025  settembre 12 Venerdì calendario

Intervista a Eugenio Finardi

Eugenio Finardi, dal Movimento al Pci a Parco Lambro, passando per Sanremo. E oggi cantore dell’intelligenza artificiale. In 50 anni non ti sei fatto mancare nulla. Ma c’è una canzone che ti rappresenti veramente?
«Difficile trovarne una che ti rappresenti, perché tutti noi conteniamo moltitudini, come dice Walt Whitman. Se proprio vogliamo trovare una canzone che sia una metafora della mia vita artistica allora dico: Extraterrestre. Quando la canto nel 1978 è un flop totale. Mi tirano i sassi, dicono che sono un traditore. È la storia di due miei amici che sognano sempre di essere da qualche altra parte. Attraverso di loro cerco di mettere in musica l’impossibilità di scappare da se stessi nel momento in cui la deriva violenta sta tradendo i nostri sogni. Quelli che come me non vogliono sparare cercano risposte mistiche. Io guardo in faccia le contraddizioni. Sul retro del disco metto la canzone Cuba: “È che viviamo in un momento di riflusso, e ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso, che tutto quel cantare sul far la rivoluzione, non sia stato che un sogno, un’illusione». Se questo è un tradimento, allora ho tradito per tutta la vita, cercando di capire le dinamiche della storia e di mettermi in discussione. Il riflusso, negli anni 80, c’è stato eccome, e quando 12 anni dopo l’ho riproposto, Extraterrestre è stato un grande successo».
Ci devi spiegare com’era quell’Italia di cui parli.
«La mia era una Milano particolare. Mia madre, americana, venne in Italia nel 1948 per studiare alla Scala. Si innamorò di mio padre, un dirigente che veniva da una famiglia di musicisti; sapeva che quello era un mestiere difficile e mai avrebbe voluto che anch’io lo facessi. Per di più, mio nonno era morto a un concerto di mia zia. Così, per scaramanzia, papà non assistette mai, da seduto, a una mia performance. Nel ’52 nasco io. Il nostro appartamento è un ritrovo della comunità americana. Cathy Berberian, la mezzosoprano moglie di Luciano Berio, è di casa. Si cena con John Cage, Demetrio Stratos, Nanni Balestrini, Gianni Sassi. È nello studio di Sassi che incontro per la prima volta, nel ’71, Franco Battiato. Sono lì il giorno in cui producono la pubblicità della B&B con Franco vestito da bandiera americana sprofondato in un sofà con sotto la scritta: “Non avete mai visto un divano?”. Battiato stava diventando per molti un centro di gravità permanente. E io cominciavo a capire chi ero. Ma ce n’è voluta…».
In che senso? Hai avuto un’infanzia ricca di stimoli culturali…
«Sì, ma nella mia famiglia eravamo due di tutto: lingua, religione, filosofia di vita. A sei anni mi mandano a fare la prima elementare nel New Jersey. Vado a vivere dalla nonna e mi accorgo che gli altri capiscono la metà delle mie parole. Allora cancello dal mio vocabolario l’italiano. L’anno dopo torno in Italia, mi iscrivono alla seconda, dove si accorgono che non so più l’italiano e mi rispediscono all’asilo. Reimparo la lingua e salto in terza. Appena riprendo a capire, mi mandano in Svizzera a studiare il francese. Capisci che senza una lingua mia l’ultima cosa che potevo fare era il cantautore? La musica sì, era l’unica cosa dentro di me in maniera univoca, perché mia madre mi aveva allevato come un cantante. Era albina e non poteva salire sul palco perché ipovedente; quindi si limitò ai recital e all’insegnamento. Quando insegnava mi portava con sé».
Però cantautore lo sei diventato. Come accadde?
«Anche qui per una sorta di dualismo. A un certo punto ho sentito il bisogno di mettermi al servizio del cambiamento: le mie prime canzoni erano dei dazebao hippy».
Perché dualismo?
«Mentre mi mettevo al servizio del Movimento mi iscrivevo al Pci. Vale a dire che per quelli che la pensavano come me ero uno di destra. Poi il segretario della mia sezione mi invitò a non rinnovare la tessera per una critica all’invasione sovietica dell’Afghanistan. C’eravamo tanto spesi contro la guerra in Vietnam e ora ne portavamo noi una a Kabul? Per di più io avevo perso la cittadinanza americana per non andare a combattere quella guerra».
Dovevi andare in Vietnam?
«Avevo la doppia cittadinanza. Nel ’71, per fortuna, non ero stato sorteggiato per andare a combattere, però la Military Intelligence Agency aveva i miei test attitudinali e, sapendo che parlavo il francese, spedirono il console di Milano ad arruolarmi. Avrei dovuto interrogare i vietcong. Rifiutai».

Hai anche rischiato di deragliare…
«Ho deragliato in tutti i modi possibili. Ho provato tutte le droghe e ne ho pagato le conseguenze».
Come ne sei uscito?
«Ci sono entrato come tutti, era facile, si faceva. C’è anche da dire che sono sempre stato trattato con sostanze. Da piccolo, come molti bambini americani, mi davano la pillolina perché ero iperattivo. Hanno smesso di darmela a 14 anni e a 16 l’ho sostituita con le canne. Di eroina si moriva per overdose, ma io ho avuto più amici morti per cocaina o per abuso di alcol. Finché mi è nata una bimba con la Sindrome di Down…».
Ti ha salvato la responsabilità nei suoi confronti?
«Più che di responsabilità parlerei di dignità. Sono entrato in comunità e ho fatto il percorso terapeutico».
Torniamo agli Anni di Piombo. Come ti collocavi?
«Per me gli autonomi erano come la loro controparte. Non a caso l’Autonomia mi ha processato infinite volte».
Di cosa ti accusavano?
«Ero un venduto al sistema. La musica doveva essere gratis. Ricordo un concerto con la PFM nel Palasport di Padova. Hanno preso un autobus e sfondato la porta. Avrebbero potuto ammazzare decine di persone. La prima tournée dal vivo la faccio con Fabrizio de André. Gli chiedo perché ha scelto me, e lui dice che ha bisogno di un cantautore di assalto che svuoti dei sassi le tasche dei ragazzi».
Così, alla fine, tradisci davvero: vai a Sanremo.
«Sì, nel 1985. Però la prima volta sono stato obbligato dal contratto con la Fonitcetra: il management si riservava di decidere tre presenze dell’autore. Pensavo fossero le fiere del disco, invece mi ritrovo a Sanremo. Presenta Pippo Baudo. Sono così suonato che mentre salgo sul palco mi accorgo di avere giù la lampo dei pantaloni. Mi giro per tirarla su, Pippo dice: “Perché hai fatto quella mossa?” Alla sprovvista rispondo: “Portafortuna!”. “Allora rifalla!”».
Così hai dovuto rifarlo spesso…
«Ci sono dei momenti surreali in questo lavoro, più che sui palchi, nei camerini. Mi è capitato di suonare sul sagrato della basilica di Sant’Antonio a Padova e mi hanno fatto cambiare nel reliquiario. Mi sono trovato in mutande davanti alla laringe del santo. A Sanremo, la scalinata è fantastica, però si sale da una terribile scaletta a chiocciola. La seconda volta che ci sono andato, questa volta per mia decisione, ho passato mezz’ora su quella scala con la farfallina tatuata di Belen impataccata al naso perché Celentano andava lungo nel monologo. Tu dirai: la mezz’ora più bella della tua vita, sì, se non stesse parlando Celentano».
Passata la crisi degli anni Ottanta cosa è cambiato?
«Riparto con La forza dell’amore, che vende mezzo milione di copie. Lì dentro c’è Extraterrestre, quello che non avevano capito quando era il momento giusto. Del resto, c’è ancora chi dice che facciamo “musica leggera”. Ma quale leggera, io faccio musica. Chi definisce la musica? Mia zia, la pianista del concerto in cui è morto mio nonno, considerava Mozart musica da tè».
Beh, hai una nuova battaglia da combattere allora.
«Sono stufo di battaglie del presente. Ho 73 anni e mi posso permettere di pensare a quel che accadrà tra 150 o 300 anni. Nel frattempo ho realizzato i miei sogni, sono salito sul palco della Scala, sono diventato il produttore di me stesso, frequento i presidi della socialità nella mia città, come l’edicola di Andrea in via Plinio, dove posso spiegargli che l’intelligenza artificiale, quando diventerà autogenerativa, migliorerà questo mondo dove gli ormoni tirano fuori il peggio che c’è nell’uomo, trasformando gli ideali in ideologie. L’ho visto succedere troppe volte. C’è un uomo solo che non ha mai tradito: Mandela».