Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  settembre 11 Giovedì calendario

Al nido solo il 27% dei bimbi sotto i 3 anni. Le soluzioni “micro” contro l’emergenza

Settembre significa primo giorno di scuola anche per migliaia di bambini sotto ai tre anni che le famiglie affidano alla rete di asili nido attivi sul territorio. Se ci riescono, s’intende. In Italia le sezioni primavera delle scuole per l’infanzia sono malate croniche: nonostante il crollo della natalità, la domanda cresce e le strutture non riescono a stare al passo con la richiesta. Oggi i posti totali nei nidi – contando pubblici e privati – sono 366mila: la copertura, però, è segnata da forti squilibri tra Nord e Sud, dove l’offerta resta sotto la media nazionale, e da costi di accesso che rendono l’adesione impraticabile per molte famiglie. Il risultato è che secondo l’Istat meno del 27% dei bimbi sotto ai tre anni ha un posto in un nido e quasi sei asili su dieci hanno bambini in lista d’attesa: numeri che, secondo un’indagine più recente della fondazione Openpolis, sarebbero migliorati tra il 2021 e 2022 con l’offerta che a livello nazionale ha raggiunto 30 posti ogni 100 bambini: comunque ben al di sotto del 45% richiesto dagli standard europei nel dopo pandemia. A mettere una pezza al problema ha provato il Piano nazionale di ripresa e resilienza mettendo sul tavolo tre miliardi e mezzo di euro per creare quasi 150mila nuovi posti tra nidi e scuole dell’infanzia entro la metà del 2026: ad oggi, però, tra ritardi e ridimensionamenti gli osservatori sembrano concordi nel dire che difficilmente si raggiungerà l’obiettivo iniziale. Non potendo fare altrimenti, dunque, il mondo economico e sociale si organizza da solo mettendo in campo alternative, tra le quali spiccano i micro nidi e gli asili in famiglia. Queste strutture, che vengono aperte da liberi professionisti in appartamenti attrezzati e che per legge possono ospitare rispettivamente un massimo di 10-12 bambini o appena 5, promettono una maggiore capillarità sul territorio e di rispondere in modo più flessibile alle esigenze delle famiglie, che spesso faticano ad adattarsi ai rigidi orari delle strutture tradizionali. Ad oggi non si conosce il numero esatto dei nidi familiari in Italia ma il modello ha conosciuto un’accelerata nel post pandemia. Del nuovo trend sembra essersi accorto pure l’Inps che pochi giorni fa ha pubblicato una circolare in cui estende la possibilità di usufruire del bonus asili nido – un sostegno per il pagamento delle rette per i nuclei familiari con Isee fino a 40mila euro – anche ad asili familiari e micro nidi.
Mettere in rete le realtà già esistenti e promuoverne di nuove è l’obiettivo di Dino, una startup fondata a Torino da Elisa Fogu e Stefano Pifferi e finanziata dall’acceleratore torinese Mamazen: «Vogliamo diffondere anche nel nostro Paese – spiega Pifferi – il modello di piccole strutture con pochi bambini, dagli zero ai tre anni, capaci di seguire la crescita dei piccoli in modo più personalizzato rispetto ai nido tradizionali. Per farlo mettiamo a disposizione dei genitori una piattaforma con contenuti educativi che facilita la comunicazione con gli educatori; ma soprattutto supportiamo gli operatori del settore, aiutandoli dal punto di vista burocratico-fiscale, dell’allestimento degli spazi, della comunicazione, della promozione e della ricerca dei clienti».
«Al di là dei piccoli numeri – continua Pifferi – che, comunque, secondo noi favoriscono un approccio pedagogico su misura e attività diversificate, come esperienze bilingue, laboratori musicali e giochi all’aperta, il vantaggio dei nidi familiari sono gli orari flessibili, che si adattano alle necessità delle famiglie, e la potenziale diffusione nei territori meno serviti. Oggi ci sono tantissimi piccoli Comuni in cui il servizio nido manca: in Piemonte, per esempio, su 1.200 città, meno di 400 hanno una struttura per la prima infanzia: gli asili familiari possono rispondere a questa carenza». L’idea di Dino è normalizzare quella che in Italia – eccezione fatta per il Trentino-Alto Adige, dove il modello copre il 45% dei servizi per la primissima infanzia – è ancora un’anomalia, sconosciuta al grande pubblico, e che invece nei Paesi nordici europei è la prassi. In Germania, per esempio, le Tagesmutter, educatrici professionali che offrono servizi per l’infanzia al proprio domicilio, seguono quasi un bambino su sei a livello nazionale. Un coordinamento potrebbe ora far decollare il modello anche lungo la Stivale: la rete Dino, che si impegna a controlli ricorrenti tra gli aderenti, potrebbe diventare una sorta di garanzia dell’affidabilità delle strutture verso cui gli italiani sembrano avere ancora una certa diffidenza.
«In 5-7 anni – rilancia Pifferi – vorremmo creare tra le mille e le duemila strutture. Se riuscissimo sarebbe una buona notizia non solo per le famiglie ma anche per le educatrici: oggi sono tra le categorie di lavoratori peggio pagati; creando un’attività imprenditoriale invece potrebbero ottenere un giusto compenso. Purtroppo finora aprire un micro nido per molti era impensabile perché serviva la capacità di destreggiarsi tra una burocrazia complicatissima, con analisi di sicurezza e regolamentazioni che variano da regione a regione».
Quello che gli asili familiari per ora non potranno certamente risolvere è il tasto economico che per le famiglie rimarrebbe dolente. Gli asili nido alternativi non sono più economici dei tradizionali e in media rispecchiano i costi che, nel nostro Paese, pesano sulle famiglie per 10.032 euro lordi all’anno: una delle spese più alte a livello europeo.