la Repubblica, 11 settembre 2025
Intervista a Walter Zenga
Al posto dell’orologio, Walter Zenga porta decine di braccialetti.
«L’orologio mi serviva quando allenavo, per il resto è inutile. I braccialetti invece scandiscono il tempo dei ricordi.
Ognuno ha un significato. Su questo ho scritto unbreakable,“indistruttibile”. Su quest’altro,
remember who the fuck you are,
“ricordati chi c… sei”. Poi ne ho tanti verdi, ma solo perché mi piace il colore. E uno che mi ricorda la mia vita all’Inter», dice l’Uomo Ragno, entrato nella squadra dei commentatori di Sky Sport.
Il derby d’Italia che ricorda con più affetto?
«Il primo in Coppa Italia. Parai un rigore a Paolo Rossi. Perdemmo 2-1, ma che emozione a 23 anni difendere la porta del club per cui tifavo da bambino».
E la sfida che ancora le toglie il sonno?
«Un pareggio per 1-1 a San Siro. Parai un rigore a Platini, ma la gioia durò un secondo. Michel segnò sulla respinta».
Chi vincerà sabato allo Stadium?
«Dopo il ritiro ho provato a giocare qualche schedina: non ci prendevo mai e ho smesso di fare pronostici».
Lei, per lavoro e per amore, ha vissuto in Romania. Darebbe un consiglio a Chivu, nella sua lingua?
«Quando si prende una squadra, non si può continuare sulla vecchia strada. Devi metterci del tuo.
Vorbesc bine româneste: parlo bene romeno. Mi sono anche convertito alla chiesa ortodossa per sposarmi».
A Tudor cosa direbbe?
«Niente. Quando allenavo, mi incazzavo con chi mi diceva cosa fare senza sapere i problemi che avevamo. Di Chivu parlo solo perché lo conosco».
Oggi con lo juventino Padovano siete colleghi a Sky.
«In tv il tifo non conta. Già quando giocavo presentavo il programma Forza Italia con Fabio Fazio e Roberta Termali, e non ero lì a fare l’interista. Registravamo giovedì sera, andavamo in replica il sabato.
Se domenica prendevo gol, i tifosi dicevano: “Per forza, va in tv il sabato…”».
Giocare, allenare, commentare in tv. Le ha provate tutte.
«Ho fatto il raccattapalle, il portiere, le pubbliche relazioni per l’Inter, l’allenatore in tanti Paesi, il direttore tecnico in Indonesia, il brand ambassador a Siracusa. Tutto tranne il panchinaro. Quello solo per qualche mese a Bordon».
Il lavoro più bello?
«Allenare. È più stressante, a volte vorresti spararti. Ma l’adrenalina èincredibile. Sei sul divano la sera, ti viene un’idea, apri il computer, chiami i tuoi assistenti. Stupendo».
Lei oggi è innamorato?
«Di me stesso».
C’è anche una donna?
«Mia figlia Samira. Ha quindici anni, è la donna più importante della mia vita, più di mia mamma».
Per dare un bacio in tribuna a Hoara Borselli, negli Stati Uniti, rischiò di prendere gol…
«Avevamo segnato, il gioco era fermo, non avrei mai lasciato la porta sguarnita. Hoara era vicina alla porta anche il giorno della mia partita d’addio: avevamo le nostre abitudini».
Il soprannome “Uomo Ragno” com’è nato?
«I giornalisti mi chiesero della mia esclusione dalla Nazionale, io cantai “hanno ucciso l’Uomo Ragno, chi sia stato non si sa, forse Sacchi, Matarrese, Carmignani, chi lo sa”, sulle note degli 883».
Per Gianni Brera, lei era “il deltaplano”.
«Ne vado fiero. Il soprannome di Brera è una consacrazione. Lo incontravo in una trattoria vicino alla Rai, in corso Sempione a Milano. Un uomo eccezionale».
Due dei suoi cinque figli hanno fatto i calciatori. Pensa di essere stato il loro idolo?
«Non l’ho mai vista così. Amo i miei figli, ho tutti i loro nomi tatuati sull’avambraccio sinistro. Ma mi sono separato due volte. La vita mi ha portato negli Stati Uniti, in Romania, in Oriente. Vederli era complicato, prendevo voli di dieci ore per stare insieme mezza giornata. Un casino».
È un nonno presente, con i suoi due nipoti?
«Li vedo poco. Coltivare gli affetti è complicato. Con mio padre, i rapporti li teneva mio fratello.
Prima di morire, mi ha scritto una lettera».
Ha potuto rispondere?
«Non ho risposto alla lettera, ma sono riuscito a salutarlo. Allenavo la Steaua e mio fratello mi disse che papà era alla fine, volai a Milano. In clinica, papà tolse la maschera dell’ossigeno, mi disse che era orgoglioso di me, poi chiese di poter riposare in pace. La mattina dopo non c’era più».
Lei va ancora in moto?
«No, ma per una vita ho girato in Harley. Quando giocavo, ero l’unico scemo di Milano col casco. Così non mi si riconosceva, pensavo. Invece, proprio perché lo avevo, mi riconoscevano tutti».
Sui social prima di Israele-Italia ha pubblicato appelli per la Palestina libera.
«Ci credo profondamente, e non voglio banalizzare la questione in tre parole, riducendo tutto all’opportunità o meno che l’Italia scendesse in campo».
Sogna ancora di arrivare sulla panchina dell’Inter?
«Non ho più sogni, vivo il presente».