Corriere della Sera, 11 settembre 2025
Enrico La Loggia: «Io, tessera numero 6 di Forza Italia e intorno una squadra di fuoriclasse. Per colpa degli alleati e dei processi fallimmo la rivoluzione liberale»
«Siccome molte cose sono state raccontate a convenienza, a tesi precostituita e non per attenersi alla verità, allora ve la racconto io come l’ho vista», dice Enrico La Loggia, figlio di Giuseppe, secondo presidente della Regione siciliana, avvocato, professore, di formazione democristiana, e poi tra i più stretti collaboratori di Silvio Berlusconi, fra i primi a conoscere la discesa in campo di cui all’inizio era anche scettico. In questi giorni La Loggia – già capogruppo al Senato di Forza Italia e ministro agli Affari regionali – ha pubblicato un libro dal titolo suggestivo «Come è andata davvero» (edito da Rubbettino), dove mette in fila fatti ed episodi dalla Prima Repubblica a Berlusconi.
Perché ha scritto questo libro?
«Per fare un’operazione verità».
Si riferisce all’omicidio del commissario Tandoy di cui fu considerato responsabile suo zio Mario?
«Mio zio venne assolto. Non fu soltanto un errore giudiziario, fu una manovra politica giudiziaria massonica contro mio padre. In un articolo sul Messaggero pubblicarono una foto della mia famiglia, me compreso, in cui si scriveva che eravamo al funerale di Tandoy, ma noi non lo conoscevamo. Quella era la foto del funerale di mio nonno».
Suo padre venne sostituito alla presidenza della Regione siciliana da Silvio Milazzo, un’operazione di palazzo che vide la convergenza di esponenti di destra e di sinistra tagliando il centro. Perché torna a parlarne?
«Ci furono 24 traditori che si beccarono 30 milioni, 24 componenti della maggioranza tra cui alcuni esponenti di governo. Io mostro una delle 24 ricevute, tra l’altro lo facevano con spudoratezza».
Le manca più la politica attiva o Silvio Berlusconi?
«È stato un grande amico. È stato un rapporto sincero, il nostro».
Eppure lei scrive nel libro che negli ultimi tempi il vostro rapporto si era rarefatto...
«È vero, questo mi condizionava moltissimo. L’ultima volta l’ho sentito sette mesi prima della sua morte e avevo anche litigato con lui. Avevo criticato le sue ultime scelte di candidati e collaboratori, di essersi fatto condizionare da interessi esterni. Gli dissi: “Silvio: Forza Italia in Sicilia non c’è più. Questi che si dicono di Forza Italia non lo sono”».
Le è dispiaciuto avere usato quei toni?
«Essendo stata l’ultima telefonata resta il mio grande rimpianto».
Cosa è stato il ’94?
«Un sogno, una visione. Ricordiamo il contesto: nel 1993 sta per crollare tutto, la Dc era già in agonia, travolta da Tangentopoli e da insuperabili beghe interne. In primavera organizzo un convegno a Palermo con circa 200 giovani che provenivano da tutta la Sicilia e proposi di discutere su cosa fare. Prendere atto della fine ormai imminente della Dc o iniziare a lavorare, come sembrava essere opportuno, a un nuovo partito popolare che rinnovasse i principi ispiratori di Sturzo e De Gasperi? Scrissi anche un opuscolo dal titolo emblematico “Ricominciare” che inviai a Mino Martinazzoli».
E come le rispose Martinazzoli?
«“Caro La Loggia, nel tuo Ricominciare trovo spunti ed opzioni assai convincenti e meritevoli di adesione. Per il resto, sì, star fermi è come morire, ma devo ammetterlo troppi “cadaveri” pretendono ancora di trattenere il vivente e ne mortificano la possibilità di ripresa”».
Come andò a finire?
«Che io non volevo stare con i cadaveri ed avevo iniziato a valutare di abbandonare la politica. Avevo una mia professione».
È Berlusconi che le ritrasmette l’amore per la politica?
«Non lui di persona ma un giorno di giugno ricevetti la visita di Pippo Baimonte, responsabile della Standa, che mi iniziò a parlare di una nuova iniziativa politica, di un nuovo partito in formazione, di un importante imprenditore del Nord che aveva già messo gli occhi su di me. Senza specificare chi fosse. Rimasi stupito e gli dissi: “Caro Pippo, io non voglio fare politica”. Ci salutammo e prendemmo l’impegno di rivederci dopo l’estate. A settembre ci rivedemmo e mi disse che un giovane dirigente di Publitalia era stato incaricato da parte di questo leader di organizzare un partito in Sicilia e mi fece il nome di Silvio Berlusconi. Il giovane dirigente siciliano era Gianfranco Micciché».
Come andò il primo incontro con il Cavaliere?
«Prima ancora di illustrarmi il suo progetto mostrò di conoscere la mia famiglia. Mio nonno Enrico e mio padre Giuseppe e delle esperienze che avevo fatto nella Dc e al comune di Palermo. Allora io presi l’iniziativa e gli dissi: “Dottor Berlusconi, vedo che lei conosce bene la storia della mia famiglia e la mia storia personale, ma al contrario io non conosco nulla su di lei”. Rimase molto colpito da questo mio atteggiamento di diffidenza e iniziò a parlarmi della sua attività di imprenditore...».
Berlusconi la convince?
«Il rapporto umano era facilissimo. Creava empatia anche se non c’era. Sul progetto politico rifletto, torno a Palermo e ne parlo con mio padre. Da quel momento mi chiama quasi ogni sera Niccolò Querci le cui telefonate iniziano così: “Le passo il dottor Berlusconi”. E la conversazione era grosso modo così: “Caro professore, non ho ancora avuto una risposta, mi fa sapere quali sono le sue intenzioni?”. Mio padre mi fece notare che non era cortese farlo aspettare oltre e che la cosa giusta sarebbe stata quella di dirgli che laddove avesse inserito i principi per noi irrinunciabili, del Cattolicesimo liberale sul rispetto della vita, sulla famiglia, sulla scuola, sulla salute, sulle libertà civili, sul diritto di culto, e via di seguito, avrei potuto accettare la sua proposta. E così accadde».
Ovvero?
«La sera ci fu la solita telefonata di Querci che mi passò il dottor Berlusconi. Gli dissi che avevo approfondito l’argomento e avevo preso una decisione: se avesse inserito nel programma del nuovo partito i principi del cattolicesimo liberale così come li avevamo elencati con mio padre, avrei potuto accogliere la richiesta. Mi rispose di mandargli tutto via fax, con le parti da inserire. E la sera stessa rimandò il programma con le parti da noi richieste».
Da lì inizia la sua carriera al fianco di Berlusconi...
«A me è stata assegnata la tessera numero 6 di Forza Italia. A quei tempi nel partito c’erano tra gli altri gente come Antonio Martino, Beppe Pisanu, Claudio Scajola, Don Gianni Baget Bozzo: una squadra di fuoriclasse. E poi i professori: Lucio Colletti, Marcello Pera, Piero Melograni... Oggi fatico a trovare tutto questo, non solo negli uomini, ma anche nelle idee...».
Nonostante questa classe dirigente la rivoluzione liberale non andò in porto. Perché?
«Tante cose sono state fatte, altre no. E il motivo fu uno soltanto: non abbiamo mai avuto una maggioranza compatta. Una volta Casini, un’altra Fini, un’altra ancora Bossi. Qualcuno si metteva sempre di traverso. Tutto questo ci ha impedito di completare la rivoluzione liberale. Altrimenti oggi l’Italia sarebbe diversa».
Solo colpa degli alleati o Berlusconi ci ha messo anche del suo?
«In realtà hanno avuto un impatto anche i 60 processi nei suoi confronti. Che sono stati di fatto una bomba atomica. Solo uno con la sua tempra ce l’avrebbe potuta fare».
Qual è il suo giudizio su Giorgia Meloni?
«L’ho conosciuta nel 2008 quando faceva parte del governo Berlusconi. Era seduta vicino a me alla Camera. La apprezzo da allora, ha qualità intellettuali, culturali e morali insospettabili, è una ragazza in gamba. Ha imparato un inglese fluente, interloquisce con tutti i partner internazionali alla pari. Se si scegliesse meglio i collaboratori forse potremmo fare ancora di più. Un consiglio fraterno, però, alla premier lo darei: non lo chiami più Piano Mattei, Mattei giusto per citare Sturzo era corrotto e corruttore e ha inquinato la democrazia in Italia».
Fa il tifo alla discesa in campo di Pier Silvio o di Marina?
«Non li conosco bene. Posso dire che mi piacerebbe se rimettessero il loro nome in gioco. Ma non so se hanno voglia».
Insomma, con lei si torna sempre ai Berlusconi e al ’94...
«Solo con una squadra di quel livello l’Italia potrebbe tornare a sognare...».