corriere.it, 11 settembre 2025
Intervista ad Andrea Agostinelli
La prima immagine che le viene in mente?
«Io da piccolo che salivo sugli alberi per prendere i pinoli. Oppure le elementari a Roma. Ricordo la parrocchia Santo Ippolito, giocavo quattro ore al giorno al battimuro. Insegnava a dribblare meglio».
E il primo ricordo del calcio?
«Quando mi sono messo la maglia della Lazio a 14 anni. Qualche mese prima avevo fatto dei provini con Bologna e Torino, con me c’era Bruno Conti. Partimmo in treno, 20 ore di viaggio. Dormimmo insieme».
E come andò?
«Scartati, entrambi».
Un successo.
«Siamo risaliti in serie A dopo cinque anni. Miglior attacco e miglior difesa, poi però ho deciso di andare via per divergenze di programmazione con la società».
Allena da oltre 30 anni, non si è stancato?
«Sono affamato come i primi giorni, quando entro in campo mi trasformo. Non mi vedo la domenica mattina a portare i pasticcini a casa».
Ha allenato anche in Congo.
«Ero a casa, a Roma. Mi chiamano, dico. “Ok, proviamoci”. Atterrato all’aeroporto si avvicinano tre macchinoni blu, blindati. Salgo, 40 minuti per arrivare in città. Ricordo la strada lunghissima e i camion con le persone ammassate sopra. Ci allenavamo a 50 chilometri da Kinshasa, in mezzo alla savana. Vedo i ragazzi che si cambiano in campo. Due li seleziono subito, uno ora è in Nazionale mentre l’altro gioca negli Emirati Arabi. Da quelle parti hanno un talento innato».
Cosa ricorda di quella esperienza?
«Gli allenamenti al Tata Raphael, lo stadio di Rumble in the Jungle, Alì contro Foreman. In trasferta capitava di doversi fare tre ore di aereo per villaggi in cui per la doccia ti portavano la mastella di un tempo, riempita per l’occasione da una donna al fiume. E poi gli stregoni, i crocefissi sulle porte da calcio... ho fatto una vita privilegiata, avevo una casa grande, mangiavo in un ristorante portoghese a pranzo e a cena, avevo le guardie del corpo. Ma poi ci sono state le elezioni, è cambiato il governo e siamo tornati in Italia».
Le ultime immagini?
«Un ragazzo che fuori dal Tata Raphael si aggrappa alla maglia e mi dice: “Coach ti amo”. E la telefonata all’ambasciatore Luca Attanasio quattro giorni prima che lo uccidessero».
Cosa le disse?
«Gli chiesi una mano per un servizio. “Non ti preoccupare, un abbraccio”, mi rispose. Andavamo spesso nei suoi uffici. Era una persona buonissima, un benefattore. Oggi la moglie e la figlia vivono a cento metri da casa mia, a Roma. E ho conosciuto anche i genitori, so il dolore che hanno provato».
Nel 2014 suo figlio Gianmarco muore a 33 anni in una camera d’albergo a Montecatini
«Quando vivi una tragedia simile, per metà muori anche tu, non ti risollevi più. È un fatto innaturale, una parte del cuore va in necrosi. Il dolore si può imparare solo a gestirlo. Il tempo non cancella niente».
Nella stanza la polizia rilevò anche della cocaina.
«Tutto quello che si è letto purtroppo è vero».
Quando ha iniziato a farne uso?
«Nel 2003, mentre allenavo il Napoli. E pensare che in casa mia non era mai entrato nulla, neanche una sigaretta. Quando io e mia moglie lo scoprimmo, si giustificò: “Lo fanno tutti”. Lo abbiamo mandato in comunità, attraverso le mie conoscenze si è fatto strada nel calcio. Aveva anche esordito in C2».
Si è colpevolizzato?
«Anche delle cose più piccole. Più volte mi sono chiesto: “E se non lo avessi lasciato da solo quella notte?”. Pistoia è dove ho ottenuto i successi più belli, volevamo tornare a vivere lì. All’indomani avrebbe dovuto visitare un’agenzia immobiliare».
Si è mai arrabbiato con lui?
«Non ha capito il valore della vita. Ma non c’è un momento della giornata in cui non lo pensi».
Come ha reagito al dolore?
«Non me ne facevo una ragione. “Perché a me?», mi domandavo. A Pistoia fatico a tornare. Ho tanti amici che mi aspetterebbero a braccia aperte. Ma è ancora dura».
Tornò subito in panchina, in Albania.
«Sentivo la voglia di evadere, di sfogarmi. Ogni mattina scendevo dal resort in cui alloggiavo, andavo in spiaggia e con le conchiglie scrivevo il suo nome sulla sabbia. L’altra mia figlia, Giordana, mi ha regalato un nipotino. Si chiama Lorenzo, ha 7 anni. Sono convinto che glielo abbia mandato Gianmarco da lassù».
Quanto è difficile essere genitori?
«Invidio chi oggi riesce a dare un’educazione comportamentale ai propri figli. I ragazzi hanno troppo, controllare tutto è impossibile. Ricordo mio papà Attilio, che mi portava sempre al campo. Educazione vecchio stampo ma per essere felici ci bastava poco, come una passeggiata alla fontanella vicino casa per mangiare una fetta d’anguria».
Lei era considerato l’erede di Re Cecconi.
«Stesso ruolo ma caratteristiche diverse. Un ragazzo eccezionale, una persona buona. Quando lo ammazzarono ero in ritiro a Santa Margherita Ligure con l’U21, stavo giocando a carte. Poi la tragica notizia. Mi diceva sempre. “Guarda che nel calcio non ti aiuterà nessuno”. Lo dico sempre ai miei calciatori. Mors tua vita mea”.
La sua Lazio era una gabbia di matti.
«Mai vissuto un giorno tranquillo, lineare. Durante le partitelle le risse erano continue, ho visto picchiarsi anche allenatore e magazziniere. Poi però la domenica eravamo tutti uniti. Una volta partimmo in pullman per una trasferta. Noto che tre o quattro compagni seduti in fondo iniziano a caricare le armi: “Ma dove andiamo, in guerra?”, mi chiedo. Poi cominciano a sparare in aria. Guardo fuori dal finestrino e noto un piccolo aereo che ci stava sorvolando. Era Gigi Martini, che oltre a essere calciatore era anche un pilota».
Oggi per chi stravede?
«Per Gasperini, che ha trasformato l’ Atalanta da provinciale a grande squadra. Mi incuriosisce Fabregas che sembra sulla via giusta ma lo dicevamo anche di Thiago Motta. La garanzia è Antonio Conte, fra i primi allenatori al mondo. Abbiamo giocato insieme al Lecce».
Giochista o risultatista?
«Il risultato prima di tutto. L’allenatore moderno deve avere una mentalità propositiva ma deve anche sapersi adattare alla squadra avversaria. Ok voler giocare la palla col portiere, ma se ti pressano bisogna spazzarla via».
Ha ancora qualche sogno nel cassetto?
«Ho girato il mondo, ho visitato più di 100 posti. Dalla vita ho avuto tutto. Voglio solo che la mia famiglia stia bene. Voglio solo serenità».