Avvenire, 10 settembre 2025
La «gabbia digitale» cinese? Costruita con la tecnologia Usa
Dimenticate il panopticon pensato e predetto da Jeremy Bentham. Lasciate perdere George Orwell e il suo celeberrimo 1984. Piuttosto, se proprio volete, aprite le pagine di Minority Report del visionario scrittore americano Philip K. Dick.
Quelle che erano prefigurazioni, anticipazioni (distopiche), profezie nefaste si approssimano oggi ormai alla realtà. E hanno una “casa”. In Cina. Nel gigante asiatico, negli anni, si è insediato ed è cresciuto fino a proliferare un tentacolare sistema di sorveglianza. «In tutta la Cina scrive l’“Associated Press” –, decine di migliaia di persone etichettate come facinorose sono intrappolate in una gabbia digitale, impossibilitate a lasciare la loro provincia, a volte persino le loro case dal più grande apparato di sorveglianza digitale del mondo». Ma i “mattoncini” di questo mostruoso sistema di vigilanza arrivano quasi tutti – secondo l’inchiesta pubblicata dall’Ap, basata su decine di migliaia di email e database trapelati da una società cinese di sorveglianza; decine di migliaia di pagine di documenti aziendali e governativi riservati; materiale di marketing pubblico in lingua cinese – dal Paese «che da tempo si dichiara sostenitore delle libertà in tutto il mondo»: gli Stati Uniti.
«Nell’ultimo quarto di secolo, le aziende tecnologiche americane hanno in larga misura progettato e costruito lo stato di sorveglianza cinese, svolgendo un ruolo molto più importante di quanto si sapesse in precedenza nel consentire violazioni dei diritti umani. Hanno venduto miliardi di dollari di tecnologia alla polizia, al governo e alle aziende di sorveglianza cinesi». A inquietare è la direzione che la vigilanza ha imboccato (e qui torna in gioco la fantasia di Dick). Una direzione che capovolge i principi fondativi dell’edificio giuridico così come è stato costruito nei secoli in Occidente. E che punta non più solo a punire ma, soprattutto, a prevenire, fino a sovvertire la cronologia stessa. Le aziende statunitensi hanno di fatto favorito l’introduzione in Cina di quella che l’Ap chiama «la “polizia predittiva”, una tecnologia che raccoglie e analizza i dati per prevenire crimini, proteste o attacchi terroristici prima che accadano.
Questi sistemi estraggono una vasta gamma di informazioni – messaggi, chiamate, pagamenti, voli, video, tamponi del Dna, consegne postali, internet, persino l’utilizzo di acqua ed energia – per scovare individui ritenuti sospetti e prevederne il comportamento». Un sistema ambiguo, aleatorio nel quale i margini di discrezionalità sono talmente ampi da minacciare di inghiottire chiunque. Persino l’intera Cina.