La Stampa, 10 settembre 2025
"A Tokyo un salto nelle emozioni. Via da Cuba senza nostalgie vivo da italiano, non da esule"
Per quasi tutti gli azzurri dell’atletica Tokyo è un punto di riferimento, per uno di loro è l’incrocio con il destino. Andy Diaz campione europeo e mondiale indoor di salto triplo, bronzo ai Giochi di Parigi, atterra oggi nella città da cui è partito cubano agli ultimi Giochi e ci torna da azzurro per il Mondiale: «Non ho nessuna nostalgia o domanda, me ne sono andato senza la fiducia del posto dove sono nato, mi ripresento sostenuto da persone che credono in me. Con una gara in sospeso».
Impossibile non rivivere quei giorni del 2021, che cosa le gira per la testa?
«Sono pieno di sentimenti. Tokyo è la svolta, ha svegliato dei sogni, mi ha fatto cambiare idea, mi ha messo davanti a una decisione che, ho scoperto poi, potevo solo prendere».
Quando si è mosso da L’Avana aveva già un piano?
«Le Olimpiadi, non pensavo ad altro. L’idea di mollare ogni persona che conoscessi non mi ha sfiorato. Ma al Villaggio mi sentivo un alieno: nulla era come sarebbe dovuto. Ricevevo direttive invece di appoggio. A Cuba funziona così. Per le qualificazioni, sono entrato nella pista di riscaldamento. Alla seconda corsa ho guardato il cielo. Basta».
Così? Di colpo?
«Sì, ho detto che avevo dei problemi, non riuscivo a saltare, poi mi sono convinto e ci ho rimuginato su. La parte più difficile è stata l’imbarco sul volo: un conto è prendere la decisione, un altro è agire».
Come ha deciso che cosa mettere in valigia? Era la sua casa in quel momento.
«Ragionamenti pratici, le scarpe da pista, qualche vestito e qualche capo sportivo, il necessario. Non avrei mai potuto aspettare tutto il bagaglio nello scalo di Madrid, dovevo confondermi subito tra la gente. Non voltarmi è stato scioccante, sono rimasto in Spagna per pochissimo, per digerire la situazione ma io non volevo fare l’esule cubano, volevo essere italiano».
Che cosa vuol dire «fare l’esule cubano»?
«Altri atleti hanno lasciato il Paese per trasferirsi in comunità cubane all’estero, allenati da tecnici cubani. Io ho bussato a Fabrizio Donato ed è un privilegio tornare a Tokyo sostenuto da lui e da una squadra e dal tifo che crede in me».
Non sarà la rivalità con gli altri ex cubani Pichardo, oggi portoghese e Diaz, lo spagnolo, che l’ha tenuta distante?
«So che ci chiamano nemici, facciamo il verso alle voci, è una parte. Ci scambiamo le occhiate dure durante la sfida, poi a posto. Io mi faccio vedere spavaldo e non metto mai i tape sui muscoli, perché dovrei dichiarare i punti di debolezza? Poi scommetto. Loro concentrati e io passo e butto lì “se vi sto davanti mi pagate la birra”. Mi piace. Ora Pichardo ha un club italiano. Mi imita un po’ dai, ma sempre dentro un giro cubano. Io sono l’unico che ha cambiato scuola, approccio, esistenza, modo di praticare lo sport. Tutto. Loro lasciano il Paese però si tengono il sistema in cui sono cresciuti».
Non le manca nulla della vita di prima?
«La famiglia, nonna, papà cugini… Eravamo abituati a stare sempre insieme, la casa a Cuba è un passaggio di parenti anche se mia madre ora sta in Italia e mi seguirà a Tokyo».
Era anche a Parigi, perché la vuole sempre in tribuna?
«A Cuba non mancava una gara, mai, da quando ero bambino. Se c’è lei non posso sbagliare. Mi vergognerei».
Lei come vive le sue gare?
«Si agita. A Parigi, in qualifica l’ho messa in difficoltà. Io non sento nulla e non guardo nessuno, però la sua presenza la avverto e alle Olimpiadi per me era tutto muto tranne la sua voce che urlava “Daje”, la prima parola che le ho insegnato quando si è trasferita a Roma. Non ho un carattere così cubano. Ho smesso di ragionare in spagnolo, la costruzione delle frasi segue la mia quotidianità, le nuove abitudini. Prima non sapevo quando la pasta era scotta, ora mi basta guardarla, una banalità, ma ce ne sono milioni e mi ridefiniscono».
Quest’anno ha saltato poco, solo in gare importanti e sempre vincendo. Come sta?
«Non uso tattica per la scena, devo gestirmi se posso. È stata una stagione difficilissima, tanti fastidi... li mettiamo via, C’è il Mondiale: la testa è carica e il fisico la seguirà».
In Cina, ai mondiali indoor, ha comprato un paio di crocs bianche e le ha riempite di spille che la raccontano. In Giappone che fa?
«Le ho portate, siamo sempre in Asia e per il 2025 sono il mio tocco personale. Ci aggiungo degli extra, ho aggiornato il leone e i primi dettagli con un pagliaccio per continuare a ridere e uno scudo prima del triplo vado avanti».
L’Italia scopre una nuova generazione. Nel triplo c’è Erika Saraceni, oro agli Europei under 20, ora già in squadra.
«L’ho incontrata ai campionati italiani, è molto talentuosa. Lei non deve avere pressione, è la più piccola».
Un consiglio?
«Non le serve, è seria, determinata, agonisticamente molto più matura delle ragazze nella sua categoria. Sembra che abbia già vissuto, invece è una bambina quindi la competizione le viene naturale».
Tra i compagni di fatica anche Andrew Howe, detentore del record italiano di salto in lungo.
«Una fortuna. Con lui si fa scuola di sport italiano, negli anni d’oro ha mobilitato un interesse pazzesco».
Tornerà a Cuba?
«Sì, prima o poi, è normale: nessuno dimentica da dove viene. Mamma mi aggiorna su ciò che succede là».
Che osa succede?
«È sempre peggio, quando abbiamo iniziato a pensare che dopo Castro ci sarebbero state delle aperture è andata pure peggio, più limitazioni, più controllo, più miseria. Parlano di popolo, ma nulla va al popolo, anzi si toglie: il governo entra nelle decisioni private».
A un giovane consiglierebbe di lasciare il Paese?
«No. Niente suggerimenti, è una questione personale e colossale. Agli atleti però dico: lì non potete costruire nessuna carriera». —