La Stampa, 10 settembre 2025
"C’è bulimia di teatro Per sopravvivere bisogna saper fare surf"
Il teatro? Per pochi. La tv? È buona solo come contenitore pubblicitario. Il cinema? È finito. Massimo Popolizio riempie i teatri, lo cercano al cinema e fa pure la disprezzata tv, eppure non è ottimista. Eccolo ospite a Foligno per i Segni barocchi guidati da Daniele Salvo dove ha appena portato in scena La mirabolante historia del Cavaliere dalla triste figura, Don Chisciotte de la Mancha di Miguel de Cervantes, accompagnato da Giovanna Famulari al violoncello, a partire da un testo su Don Chisciotte tradotto nel 1923, «un po’ vintage, bella musica barocca eseguita al violoncello e io al leggio».
Popolizio, ci dica lei, come sta il teatro?
«Ho 64 anni e non ho mai visto un teatro che stia bene. Ci si barcamena tra cavilli burocratici, mancanza di soldi, leggi fatte male, condizioni difficili. Sei costretto ad abbassare la qualità per riempirli i teatri».
Poco teatro?
«Al contrario. C’è bulimia, una quantità enorme di produzioni che muoiono subito. Per sopravvivere devi fare almeno cinque spettacoli l’anno, l’attore è come una escort, chiamato quando serve, due settimane di repliche e a casa. La legge è stata fatta per i teatri stabili dove le compagnie possono stare ferme lì. Non c’è una visione d’insieme e chi vorrebbe averla si scontra con spese triplicate. Le scenografie costano 40% in più rispetto al pre Covid. I costumi, peggio. Dovresti essere Houdini per far quadrare i conti. Volendo risparmiare, si abbassa la qualità».
Il pubblico allora scappa?
«No. Le sale dove si programmano spettacoli brutti sono piene quanto quelle che propongono spettacoli belli. Il pubblico non sa più distinguere. Il crollo di questi ultimi anni è verticale. Il teatro è noioso perché pretende di piacere a tutti. Se vedi un brutto film non intacca più di tanto, pensi di aver preso una fregatura e domani sceglierai meglio. Se vedi un brutto spettacolo pensi che tutto il teatro sia una rottura di palle e ci metti anni per riprenderti. Dici che stai per le donne? Per i gay? Contro le ingiustizie? Un ragazzo ti sta alla larga, si annoia».
Vive meglio il cinema?
«Il cinema in sala è finito, lo si vede altrove».
Il tax credit non aiuta?
«Il tax credit era troppo sfacciato e la destra sta usando la mannaia: spero che quando il castigo sarà finito, si ricomincerà a produrre in modo migliore. I film sono storie e se affrontano temi “di sinistra” non è detto che tolgano voti alla destra. E sa perché? Perché noi non contiamo niente. Conta il calciatore, non l’attore. Fare un bel film avrà sempre meno forza di un’apparizione a Ballando con le stelle. Che si mettano l’animo in pace. Se giro un capolavoro sui Rom non farò mai cambiare idea al vicino di casa che il rom continuerà a volerlo morto».
È vero che la destra teme il mondo dello spettacolo?
«Non scherziamo, contiamo talmente tanto che la destra ha vinto a man bassa. Meloni non ha fatto un colpo di stato, l’italiano è fascista dentro. Negli Stati Uniti anche, Trump l’hanno votato gli operai. Il teatro lo scegli perché stai in una bolla fantastica che non esiste, tanto non cambiamo niente. A teatro ci viene la sciura al pomeriggio, non portiamo una bandiera sociale. Ci piace far pensare che esista un mondo che si chiama storia ma vive solo in scena».
La tv ha più potere?
«La tv è porcheria, un contenitore per la pubblicità, per loro non sei uno spettatore ma un consumatore. Ora poi c’è la corsa dell’attore tv a fare teatro ma così si muore di mancata identità. Bisogna imparare a gestire la propria vita sapendo bene che alle 20,30, quando gli altri hanno finito la loro giornata, tu, che hai già risolto tutto il resto, devi farti venire la voglia di andare in scena senza sembrare scazzato. Cinque spettacoli in un anno e devi far sì che non somigli a un modo come un altro per pagare le bollette. Perché sia così, devi coltivare la passione e il lavoro e gli incontri che valgono la pena. Il teatro è fatica, la parola non è uno slittino ma un ostacolo da risolvere».
Come si sopravvive?
«Imparando a fare surf, uno slalom continuo per evitare ciò che non ci piace, cercando alleanze con chi ha i tuoi stessi valori e vai avanti. Persino nella Russia di Putin il teatro è sacro, lo studiano, i macchinisti sanno a memoria i testi che vanno in scena. La cultura non dovrebbe avere colore. Io sono nato con Ronconi e la chiave era la professionalità che oramai è perduta».
In Italia non c’è attenzione alla cultura?
«Certo che no. In Francia Ariane Mnouchkine (regista francese, 86 anni, fondatrice nel 1964 del Théâtre di Soleil con sede alla periferia di Parigi, dove si fa la fila per entrare) è un’istituzione e viene protetta in quanto tale. In Italia di Umberto Orsini, 91 anni, che a giugno ha portato in scena al Festival di Spoleto Prima del Temporale, dove interpreta se stesso in modo memorabile, non frega niente a nessuno e si fa difficoltà a vendere questo meraviglioso spettacolo. In Francia, al regista che diresse l’Odeon hanno tributato gli onori in un funerale di stato, noi sempre guitti saremo. L’approccio è diverso, il rispetto pure».
Le manca Luca Ronconi?
«Ronconi manca a un sacco di gente, manca una diga, con lui si sapeva che c’era un baluardo, un modo di vedere le cose. Morto lui, liberi tutti. Ho perso un riferimento, sono in crisi, mi chiedo di continuo per chi lavoro, con quale forza etica e passione lo faccio. Quello che lo spettatore vede è frutto di una crisi ma si paga il biglietto per piangere non per vederti piangere. Ciò che vedi viene da una sofferenza che non ti faccio vedere. Per me interpretare significa questo, la stessa idea di teatro che aveva Ronconi».