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 2025  settembre 10 Mercoledì calendario

La Fed taglierà i tassi. E forse non è un bene per Trump

Si avvicina la riunione della Fed del 16-17 settembre che molto probabilmente deciderà il suo primo taglio dei tassi da dicembre dello scorso anno a oggi.
Bookmakers. La scommessa degli investitori è che sarà di un quarto di punto. Il FedWatch, un tool di Cme Group, che cerca di anticipare le decisioni basandosi sui prezzi dei futures sui Fed Funds a 30 giorni, assegna l’88,2% di probabilità che i tassi vengano abbassati di 0,25 punti: dall’attuale 4,25-4,50 a 4-4,25.
Chi punta più in alto. Eppure solo una settimana fa le scommesse erano pari al 100%. Quel 11,8% se l’è preso la probabilità che l’organo direttivo della Banca centrale tagli maggiormente, ovvero di mezzo punto percentuale.
A modificare il consenso sono stati i dati del lavoro Usa, apparsi bassi e inferiori alle attese.
Gli obiettivi della Fed. I due compiti principali della Fed sono tenere sotto controllo l’inflazione e favorire il mercato del lavoro. Tra questi due scogli si devono muovere le decisioni dei suoi componenti. E ora a far più paura sembrano i numeri del lavoro rispetto ai prezzi, il che potrebbe non essere una buona cosa.
Il crollo di agosto. Quando gli economisti e gli investitori hanno visto che ad agosto sono stati creati solo 22mila posti contro i 75mila previsti e i 79mila di luglio, sono subito cresciute le scommesse per un taglio maggiore.
Il bicchiere mezzo pieno. Eppure Trump, che da tempo invoca la riduzione del costo del denaro, non ha brindato a quei numeri anche se molto probabilmente convinceranno la Fed a tagliare i tassi, perché è altrettanto preoccupato dal ridimensionamento dell’occupazione.
Le promesse di Trump. In campagna elettorale aveva promesso di riportare le aziende negli Stati Uniti, di tenere a bada l’inflazione e rafforzare l’economia, mentre dai dati di agosto è emerso che la crescita si sta incrinando e che i settori più colpiti sono stati proprio quelli dei colletti blu. A causa dell’incertezza legata ai dazi, introdotti dallo stesso Trump, si sono bloccate le assunzioni.
I settori che soffrono. La produzione manifatturiera, l’edilizia, l’energia e l’estrazione mineraria hanno perso complessivamente 25mila posti di lavoro. Anche il commercio all’ingrosso è stato duramente colpito, con una perdita di 12mila posti. In più, il blocco dell’immigrazione non ha aiutato ad assumere nuovi lavoratori.
Quando la cura è peggio della malattia. Come soluzione al problema, Trump ha pensato non di rivedere la sua politica protezionistica, ma di rimuovere la numero uno del Bureau of Labor Statistics, Erika McEntarfer, accusandola di aver manipolato il rapporto sull’occupazione di luglio, che già mostrava un mercato in rallentamento.
La nuova nomina. Al suo posto ha nominato un suo fidato, ma considerato senza competenze sul tema, Erwin John Antoni, economista della Heritage Foundation, il think tank di destra che ha contribuito alla stesura del Project 2025, il programma elettorale del secondo mandato di Trump.
Repetita iuvant. È la stessa strategia che ha in mente per la Fed, dove se non riesce a rimuovere Powell, ostile a una forte e immediata riduzione dei tassi, prima della sua naturale scadenza del 2026, punta a cambiare due membri ed ad avere la maggioranza del board. Oggi, compreso Powell, i componenti del board sono sei e un posto è vacante.
L’ideologo Miran. Questa poltrona dovrebbe presto essere presa da Stephen Miran, il capo degli economisti di Trump, autore della sua dottrina economica, presidente del Council of Economic Advisers, come lo erano stati anche i due ex numeri uno della Fed, Janet Yellen e Ben Bernanke.
Non è una semplice coincidenza, perché anche Miran è ritenuto il candidato più probabile alla carica di presidente ora occupata da Powell.
La buona governance della Fed. Degli altri cinque membri del board, due sono considerati vicini a Trump, mentre il terzo che insieme a Miran dovrebbe garantire la maggioranza di quattro su sette, potrebbe arrivare nel caso andasse in porto la cacciata della consigliera Lisa Cook, messa sotto indagine dal direttore della Federal Housing Finance Agency (FHFA), William J. Pulte, anche lui nominato da Trump, sostenendo che avrebbe dichiarato più immobili come abitazione principale per avere mutui agevolati.
Conviene ridurre molto i tassi? Ma, anche qualora avesse il controllo della Fed con buona pace dell’indipendenza dell’istituzione, la vera domanda è se anche a Trump convenga un taglio aggressivo del costo del denaro.
Il presidente lo invoca per ridurre il costo del debito Usa e dei finanziamenti, aiutare l’economia e spingere i mercati azionari, ben sapendo che buona parte dei risparmi degli americani sono legati alle performance della Borsa.
Le previsioni. Mark Haefele, chief investment officer di Ubs global wealth management, stima che un primo taglio già nella riunione di settembre darebbe avvio a una serie di riduzioni per complessivi 100 punti base entro gennaio 2026. Goldman Sachs arriva allo stesso risultato ma entro giugno 2026.
Il che, oltre a ridurre i tassi al 3%, potrebbe spingere le quotazioni dell’S&P 500 ai nuovi massimi fino a 6.600 punti già entro fine anno, dopo i picchi di 6.500 toccati ad agosto.
Controcorrente. Una voce fuori dal coro è quella di Ruchir Sharma, un autore indiano-americano, gestore di fondi ed editorialista del Financial Times. È a capo delle attività internazionali di Rockefeller Capital Management ed è stato un investitore nei mercati emergenti presso Morgan Stanley.
Il rischio di una nuova bolla. In un suo recente intervento sul quotidiano inglese ha sostenuto che se la Fed dovesse andare verso una politica monetaria più accomodante del dovuto, si rischierebbe di fomentare una nuova bolla come avvenuto in passato.
“I tassi non sono alti”. Secondo Sharma, il tasso di interesse della Fed non è restrittivo, tanto che le aziende più traballanti (quelle definite junk) possono ottenere prestiti a tassi solo leggermente superiori a quelli delle aziende solide o persino del governo. Il premio che pagano rispetto ai titoli del Tesoro è il più basso degli ultimi cinquant’anni.
Il pallone gonfiato dell’IA. Il rischio per Sharma è che tagliare i tassi ora, con la mania dell’intelligenza artificiale che alimenta i mercati statunitensi già vicini ai massimi storici, possa spingerli a livelli ancora più alti, come ipotizzano del resto anche le banche d’affari.
Multipli alle stelle. Solo per restare alle Magnifiche sette, Tesla, la più gonfiata, vale in Borsa qualcosa come 180 volte gli utili attesi, Nvidia quasi 50, Microsoft 36 volte, mentre Amazon, Alphabet e Meta oscillano tra 20 e 30. Apple sta a quasi a 17 volte.
E a parte Alphabet e Meta, tutte le altre hanno multipli molto elevati rispetto alle reali aspettative di crescita, la maggior parte delle quali legate all’Intelligenza artificiale.
Più bolla che recessione. Con gli investimenti tecnologici pari a quasi il 6% del Pil, praticamente allo stesso livello di duelli del picco del 2000, il rischio bolla è più concreto rispetto a una recessione economica. E la Fed non dovrebbe farsi trascinare verso un taglio repentino e violento.
Più inflazione che disoccupazione. I segnali di debolezza del mercato del lavoro sono minori rispetto alle prove che l’inflazione si sia consolidata: il tasso di disoccupazione è solo al 4,3%, vicino ai minimi storici, mentre i prezzi al consumo hanno superato l’obiettivo del 2% della Fed per cinque anni consecutivi e dovrebbero rimanere ancora elevati nel prossimo futuro.
Il nuovo dato di agosto. Un primo segnale potrebbe arrivare già domani quando verranno divulgati i dati di agosto sull’inflazione Usa. Secondo le previsioni di Bloomberg quella core, che esclude i costi dei generi alimentari e dell’energia, è prevista in crescita dello 0,3% rispetto al mese precedente. Che vuol dire un aumento del 3,1% su base annua, un valore ancora ben al di sopra dell’obiettivo del 2% della Fed e in linea con i dati del mese precedente.