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 2025  settembre 10 Mercoledì calendario

«La pasticceria è statica e noiosa. Ho convinto i figli a non fare gli chef. Non esistono ristoranti troppo cari (e io non porto mai subito il conto)»

G iancarlo Perbellini disse questo lo scorso novembre quando ricevette la terza stella Michelin per il ristorante di Verona che un tempo si chiamava «12 Apostoli» e che oggi è «Casa Perbellini – 12 Apostoli»: «È una stella romantica: la condivido con il mio staff e con mia moglie, la persona che ascolto con più attenzione. Questo riconoscimento corona poi un sogno coltivato fin da giovane». Perbellini è cresciuto qui, nel locale che fu della famiglia Gioco. E qui un giorno è tornato, perché ogni Ulisse ha la sua Itaca e perché gli Apostoli possono anche diventare 13.
Perché la cucina e gli chef sono diventati così popolari?
«Il merito è della televisione. Da giovane ero in Francia: i cuochi erano considerati alla stregua degli scienziati. Mi chiedevo se anche da noi saremmo mai arrivati a questo: la tv ha sdoganato e divulgato il nostro lavoro. Ma come contropartita si è un po’ persa l’attenzione sulla parte del “ricevimento”, fiore all’occhiello della ristorazione italiana».
MasterChef è ormai un fenomeno?
«Sì e ha creato pure cultura. Se oggi parli del sifone o del katsuobushi, tutti sanno che il primo è un arnese per la cucina e che il secondo è il tonno giapponese essiccato e fermentato. Peraltro MasterChef fa anche immaginare che quello dello chef sia un mestiere facile: ecco, è vero il contrario».
C’è qualche collega che le sta sull’anima?
«Diciamo che ci sono colleghi più simpatici, magari per lo stile di cucina, e altri che non comprendo. Ma sono arrivato a capire Gualtiero Marchesi e quando ci sono riuscito mi sono entusiasmato: a volte serve solo trovare il punto di contatto».
Perché non ha proseguito la tradizione familiare nella pasticceria?
«Perché la pasticceria è statica e noiosa. La cucina dà invece la possibilità di variare: difatti ha vissuto una rivoluzione che nella pasticceria non è ancora avvenuta».
Lei aveva un’idea di cucina o l’ha costruita cammin facendo?
«Ho avuto degli innamoramenti. In realtà ho studiato tanti chef, rielaborando quanto acquisito secondo la mia personalità e modificando l’interpretazione degli ingredienti: non mi riconosco nel modo in cui 30 anni fa trattavo certi prodotti».
Quali i momenti chiave nella sua vita professionale?
«Il primo è stato il passaggio dai “12 Apostoli” al “San Domenico” di Imola. Il primo proponeva una cucina classica mentre il secondo stava introducendo un’innovazione incredibile. Poi ho vissuto il periodo della Spagna: la sua rivoluzione è durata per 15-20 anni. Comunque le novità le cogli ogni 2-3 anni: di solito emerge qualcosa che intriga».
Lei segue una filosofia?
«Quella di interpretare le singole stagioni, aggiungendo le esperienze dei viaggi e le influenze di certi periodi. Così rivisito le ricette, mantenendo la memoria del gusto ma proponendola in una versione nuova».
Come ha affinato la tecnica?
«Con il lavoro, rubando il mestiere di qua e di là. Per crescere serve la base di un ristorante semplice e io l’ho avuta. A 50 anni ho ricominciato a imparare. Ho assunto uno chef di esperienze “marchesiane” che mi ha fatto vedere la cucina da una prospettiva diversa: venivo da una scuola francese, barocca, mentre Marchesi predicava pulizia e semplicità».
Quanto dedica alla sperimentazione?
«È una parte importante nella costruzione dei menù, ma nell’ultimo anno e mezzo l’avevamo trascurata. Stiamo rimediando grazie a un laboratorio affidato a un mio Sous Chef: gli diamo gli input, lui sviluppa le idee. Molto, oggi, nasce dal “lab”».
Visto il passato che ha, il «12 Apostoli» è più di un ristorante?
«Certo. È stato pure un centro di pensatori, di arte, di cultura: ha ospitato un pezzo della storia d’Italia».
I vari cibi, o gli ingredienti, sono come dei figli?
«Un po’ sì. E ogni chef ha il suo prediletto. Il mio è il wafer: alla mattina è la prima cosa che assaggio. Guai a chi me lo tocca: se qualcuno mi dice di aver preferito un certo piatto rispetto ai wafer, ci rimango male».
Qual è invece il cibo amato da Giancarlo Perbellini?
«Il risotto: vivrei di risotto e di pomodoro».
Carne o pesce?
«Carne. E tanti vegetali».
Ci sono trucchi per diventare chef?
«Tutto sommato no, ma devi esprimere ciò che hai dentro. Ogni mattina, da 40 anni, vengo qui con l’idea di aggiungere. Mia moglie a volte mi dice di rallentare, ma è impossibile».
Diventare chef di livello attira per i guadagni?
«Noi italiani non siamo mai arrivati ai livelli di uno chef francese o di uno americano... Comunque, stai bene e hai dei vantaggi se il locale funziona. Però la contropartita è che non puoi avere una vita sociale normale. Io poi non sono il tipo che, finiti il pranzo o la cena, porta subito il conto: spesso gli ultimi clienti escono all’una e mezza della notte...».
Nella cucina si può ancora inventare qualcosa?
«Inventare è una parola grossa. Forse il termine più corretto è rielaborare».
I vegani che cosa si perdono?
«Nulla sul fronte della salute, ma si perdono tanto su quello delle molteplici sfumature che il cibo può offrire».
Lei coltiva una cucina «alternativa»?
«Ho il menù che all’inizio chiamavo “del senza”: senza glutine, senza latticini, senza uova... Un menù complicato, ma che fa crescere perché realizzare un piatto con poco è difficile. Poi però la comunicazione mi ha “ucciso”: il “senza” era penalizzante. Un amico mi ha proposto di cambiare in “essenza”, concetto che riporta all’espressione “l’è senza” del dialetto veronese».
Ha mai mangiato in un ristorante troppo caro?
«Il troppo nei ristoranti non esiste: ogni ristoratore mette insieme dei numeri e fa il suo prezzo. Spesso ho mangiato in ristoranti molto cari, non troppo cari».
Lei si considera caro ma giusto?
«Mi ritengo equilibrato».
Carlo Cracco di recente ha subìto una dura protesta.
«Non mi è chiaro il fine: Cracco dà lavoro a cento persone, non capisco dove stia il problema. Protestare è un diritto sacrosanto, ma solo nel rispetto del prossimo».
Si può fare una hit parade degli chef attuali?
«È molto difficile, ci sono tradizioni consolidate, o che ritornano, ci sono suggestioni nuove come quelle degli chef del Nord, ad esempio il danese René Redzepi, o di quelli peruviani che propongono il mercato dell’Amazzonia a noi meno noto. La voglia di contaminazione rimane, ad esempio io ho una lacuna nell’estetica, avendole sempre anteposto il gusto: ora cerco di migliorare le presentazioni, rubando il più possibile a colleghi che realizzano veri capolavori».
Ha mai bruciato una pietanza?
«Altroché, una volta abbiamo bruciato un fondo e siamo stati costretti a cuocere dello zucchero caramellato per togliere l’odore dai muri.
Il passaggio dal fornello a gas a quello a induzione è stato poi critico».
A casa cucina lei o sua moglie?
«Nel giorno di riposo cerco di andare al ristorante perché in settimana mangio talmente di fretta che voglio anch’io avere il piacere di stare a tavola. Ma se resto a casa preferisco cucinare io».
Ha tre figli: daranno un seguito alla sua arte?
«Ho fatto di tutto per convincerli a non farlo e ci sono riuscito. Uno dei due maschi è ingegnere gestionale, il minore fa il Disc jockey. La ragazza, invece, ha studiato economia e gestisce il locale di Isola Rizza».
Servirà trovare un Perbellini del terzo millennio che segua le sue orme...
«Sì, sto cercando un nuovo Giancarlino...».