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 2025  settembre 09 Martedì calendario

Il cardinale Semeraro: «Papa Francesco non temeva la morte, a farmelo conoscere fu l’attacco alle Torri Gemelle. Leone XIV? Lo incontro da anni»

Lo scorso 14 aprile, Lunedì santo, il cardinale Marcello Semeraro fu ricevuto in udienza da papa Francesco. Voleva informarlo che erano in arrivo le bozze del libro Il mio san Francesco, scritto a quattro mani. «Quelle devi correggerle tu!», gli obiettò Jorge Mario Bergoglio con un sorriso. Il porporato la prese come una battuta. Invece si trattava di una profezia: sette giorni dopo, il Lunedì dell’Angelo, il Pontefice morì. Ecco perché questo volume frutto di un dialogo fra i due – in uscita il 18 settembre con una lettera di papa Leone XIV e una prefazione del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano – può essere considerato un testamento spirituale, incentrato sulla figura del santo che 12 anni prima, in conclave, all’argentino preso «quasi alla fine del mondo» aveva ispirato il nome da assumere sul soglio di Pietro. 
Semeraro, ex vescovo di Albano, oggi prefetto del Dicastero delle cause dei santi, è il prelato immortalato tra Francesco e Benedetto XVI in una foto rimasta famosa: il Papa emerito aveva lasciato il Vaticano da pochi giorni e il successore andò a fargli visita in elicottero a Castel Gandolfo.
Perché si trovava lì in quel frangente?
«Le Ville pontificie sono nella diocesi di Albano. Joseph Ratzinger mi volle accanto a sé e mi presentò al suo successore. “Ma noi ci conosciamo già, e da tanti anni”, esclamò Francesco».
Cioè da quando?
«Dal settembre 2001. Ero il segretario speciale del Sinodo dei vescovi. Vi fu l’attacco alle Torri gemelle e il relatore Edward Egan, arcivescovo di New York, tornò precipitosamente in patria. Bisognava sostituirlo. “Dopo uno dell’America del Nord, nominiamone uno che sia espressione di quella del Sud: Bergoglio”, decise Giovanni Paolo II. Santità, ma io non lo conosco, gli obiettai. E lui: “È di origini italiane. Vi capirete”».
Infatti vi siete capiti subito.
«Quando tornava a Roma, stavamo insieme. Nel marzo 2013 gli suggerii: finito il conclave, non tornare subito a Buenos Aires, ti porto in gita a Castel Gandolfo. Invece ne uscì papa e mi nominò segretario del Consiglio dei cardinali, ideato nelle congregazioni che precedono l’ingresso nella Cappella Sistina».
Come seppe che la creava cardinale?
«Non me ne parlò mai. Lo appresi dalla tv, seguendo l’Angelus domenicale».

Poi il Dicastero delle cause dei santi.
«Mi telefonò: “Vieni da me. C’è da sostituire il cardinale Angelo Becciu”. Devo presentarmi con l’avvocato?, replicai. E gli chiesi di poterci pensare. “Ci rifletti da Santa Teresa a Santa Teresa
”, tagliò corto Francesco. La festività della mistica di Ávila cade il 15 ottobre. Becciu era stato privato dell’incarico 21 giorni prima».
Non volle rivedere le bozze del vostro libro su san Francesco. Si fidava di lei.
«Mi commuove pensarci. Volevamo prepararlo in vista del 2026, ottavo centenario della morte del santo di Assisi».
Un colloquio nato da quanti incontri?
«Sette-otto. Il Papa mi convocava per le 7.30. Porto il caffellatte?, scherzai la prima volta. Anche in Argentina si svegliava prestissimo. Fui io a comunicargli alle 6 che Benedetto XVI si era dimesso».
Durante l’ultima visita si rese conto che non lo avrebbe più rivisto vivo?
«No. Andai a Casa Santa Marta confortato dai bollettini medici, che parlavano di un miglioramento. Mi ricevette senza talare, in camicia bianca e pantaloni. Aveva la cannula nasale per l’ossigeno».
Chi era san Francesco per Bergoglio?
«La scelta del nome fu istintiva, dettata dalla frase che Cláudio Hummes, arcivescovo emerito di San Paolo del Brasile, gli sussurrò in conclave: “Non dimenticare i poveri”. Via via, la introiettò sempre di più. Mi fu chiaro nella Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro, quando spiegò che Francesco d’Assisi non era arrivato a Gesù perché aveva incontrato il povero, ma era arrivato al povero perché aveva incontrato Gesù».
«Pace e bene», il saluto francescano, oggi pare diventato «Guerra e male».
«Sì, è così. Ma pace nel linguaggio biblico non significa solo assenza di guerra, altrimenti dovremmo ripetere ciò che i Caledoni dissero dei Romani: “Dove fanno il deserto, lo chiamano pace”. Per questo papa Leone apre tutte le udienze con il saluto del Risorto ai discepoli: “Pace a voi”. La pace della Bibbia è una struttura interiore dell’uomo».
Nel 1219 Francesco si recò dal sultano Malik al-Kamil. Oggi da chi andrebbe?
«Dal punto di vista politico, quella missione fu un fallimento. Ma papa Bergoglio vide in essa lo spunto per una Chiesa estroversa, “in uscita”, come amava ripetere. Fu la base dell’enciclica Fratelli tutti sulla fraternità universale».
Ha mai conosciuto qualcuno che si spoglia dei beni paterni «per sposare “Madonna Povertà”», come disse il Pontefice nella sua prima visita ad Assisi?
«Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta. Lo conobbi da giovane sacerdote. Siamo rimasti uniti sino alla fine. Ho avuto la gioia di portare a compimento il processo per la sua causa di beatificazione e canonizzazione, sino alla dichiarazione dell’esercizio eroico delle virtù cristiane. Ed eroico don Tonino lo fu per davvero».
Nella prefazione, papa Leone cita una confidenza che le ha fatto il suo predecessore: «Quando si è anziani ci si rende conto che non manca molto alla fine, e allora diventa anche una grazia poter prepararsi alla morte». Come si fa?
«La maniera migliore è rendere più autentiche, sincere, le relazioni umane. Aiuta a guarire le ferite che inevitabilmente ti sei procurato nel corso della vita e a sciogliere le vele senza fatica».
Chiede a Bergoglio: «Ha paura di morire? Come si immagina il paradiso?».
«Non aveva paura, lo capii dalla serenità del volto. In lui prevaleva l’attesa di riannodare i legami con i propri cari. Ci ho ripensato mentre per l’ultima volta faceva il giro di piazza San Pietro nel giorno di Pasqua. È morto come ha voluto». 
Lei recita la preghiera di sant’Alfonso Maria de’ Liguori per la buona morte?
«Fin da ragazzo. Coltivo la speranza, che è simile alla più piccola delle virtù, secondo lo scrittore Charles Péguy. Una volta i nipoti di un’anziana mi raccontarono che la nonna volle essere sepolta con un cucchiaino nella bara. E perché mai?, mi stupii. “Lei c’insegnava che, se c’è quello in tavola, significa che alla fine arriva il dolce”, mi spiegarono».
Nelle domande a papa Bergoglio lei afferma che ai tempi del Poverello di Assisi la Chiesa «era una “madre” che mostrava gravi distorsioni». E oggi?
«La madre... Di tutti ci possono parlar male, tranne che della mamma. La “sporcizia” feriva Benedetto XVI. La Chiesa si è sempre dichiarata santa e peccatrice. Ma non deve nascondere le sue piaghe».
Che cos’è la misericordia?
«Un’espressione di forza. All’invocazione “Dio onnipotente ed eterno”, la tradizione liturgica bizantina unisce sempre le parole “e amante degli uomini”. È una qualità dell’Altissimo».
Lei ebbe misericordia per Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine.
«Come vescovo, non fu un sacrificio accettare il suo funerale nel territorio di Albano, nonostante i disordini».
«A volte si è misericordiosi dicendo dei no», sottolinea Francesco nel libro.
«Molti genitori oggi pensano che educare significhi accondiscendere».
Lei ricorda a Bergoglio «le riserve riguardo alle sue “aperture” verso le molte “diversità”». Sui giornali Semeraro è stato descritto come «gay friendly» e ultrà della pastorale per gli omosessuali.
«Ad Ariccia, in quella che era la mia diocesi, si tenevano convegni periodici di cristiani lgbt. Stesi una relazione su richiesta della Congregazione per la dottrina della fede. In seguito, don Aristide Fumagalli mi sollecitò una prefazione per il suo saggio L’amore possibile. Persone omosessuali e morale cristiana. Domandai consiglio a papa Francesco. Rispose: “Scrivi tranquillo. Il nostro compito è accogliere, che non significa approvare”».
Al suo dicastero si imputa di accelerare le cause dei santi in cambio di soldi.
«È l’esatto contrario: poniamo limiti alle spese e pretendiamo i rendiconti. Inoltre abbiamo un fondo a favore dei candidati delle Chiese povere. Un processo di canonizzazione comporta molti costi per le ricerche storiche e le trascrizioni, che però non affrontiamo noi ma i postulatori. Pensi solo agli atti per la causa di Alcide De Gasperi: è servito un camion per portarli a Roma da Trento».
Se i suoi le avessero impedito di entrare in seminario, come avrebbe reagito?
«Mio padre ci provò. Lui voleva che portassi avanti il cognome, visto che avevo solo due sorelle. Francesco mi confidò che sua madre si era rassegnata a vederlo diventare prete. Ne fui consolato».
Che uomo era Jorge Mario Bergoglio?
«Un difensore dei poveri e dei deboli. Se poi le persone che egli ha difeso fossero davvero povere e deboli, non spetta a me dirlo».
Avrà pur avuto qualche difetto.
«Era un po’ impulsivo».
E a sé stesso che cosa rimprovera?
«L’orgoglio, che consiste nel non essere consapevoli dei propri limiti e neanche delle proprie qualità».
Ha già incontrato papa Leone?
«Sono anni che lo incontro. Eravamo vicini d’ufficio e viviamo nello stesso stabile, lui al piano di sotto, io a quello di sopra. Abita ancora lì, in attesa che venga sistemato il Palazzo Apostolico. In ascensore, l’ho pregato di volermi scusare se il rumore del mio sciacquone gli reca disturbo. Si è messo a ridere».
Lo chiedo al presidente dell’editrice di «Avvenire»: ma lei si fida dei giornalisti?
(Sospiro). «Le dirò questo. Ogni mattina cerco in prima pagina Massimo Gramellini sul Corriere della Sera e Mattia Feltri sulla Stampa, per il loro acume. Poi leggo con interesse gli editoriali di chi non la pensa come me. Altri giornalisti li salto: so già quello che scrivono».