il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2025
Inflazione dei cartellini: così il calcio mercato record fa felice solo la Premier
In teoria economica, dicesi inflazione l’aumento generalizzato dei prezzi che porta a una diminuzione del potere d’acquisto. Ora, immaginate più o meno la stessa cosa applicata al pallone, dove i beni e servizi sono il cartellino degli attaccanti che fanno sognare i tifosi, e la moneta ridotta a carta straccia quella dei club italiani, con i vari Marotta &Co. col carrello sempre più vuoto alla spesa del (calcio)mercato.
C’è un’immagine realizzata dal famoso portale 433 che riassume l’ultimo calciomercato. Vi sono ritratti i principali colpi dell’estate, in prima fila Alexander Isak prelevato dal Liverpool per 145 milioni, Huijsen (Real), Reijnders (City), Xavi Simons (Tottenham), via via tutti gli altri. Le maglie italiane sono relegate negli angoli: compaiono solo Modric al Milan e De Bruyne al Napoli, più per rispetto alla carriera che per la rilevanza dell’acquisto, e David alla Juventus, a sottolineare che il nostro campionato sopravvive come buen ritiro per stelle sul viale del tramonto o parametri zero. Sono solo i più sensazionali dei 12mila trasferimenti conclusi nella sessione, che secondo un report Fifa ha movimentato 9,76 miliardi di dollari, la cifra più alta della storia (+50% rispetto al 2024). Un’estate da record. Ma non per noi.
Il confronto fra i campionati è impietoso. La Premier League, da sola, ha speso quanto tutte le principali leghe europee (fonte Transfermarkt.it): 3,59 miliardi di euro. Lontanissime Serie A (1,18 miliardi), Bundesliga (859 milioni), Liga (681 milioni) e Ligue1 (661 milioni), ma lì ci sono Bayern, Real e Psg che fanno man bassa. C’è chi si indigna per lo strapotere inglese, in realtà è tutto comprensibile: la Premier incassa oltre il triplo dai diritti tv, e quindi spende il triplo. Quanto alla campagna faraonica del Liverpool, è vero che ha speso 480 milioni tra Isak, Wirtz, Ekitike, ma ne ha anche incassati 220 (ci sono club con saldo più negativo); e poi una società che fattura oltre 700 milioni, e che l’anno scorso quasi non aveva fatto mercato, può anche permettersi investimenti massicci una tantum.
Le cifre folli che girano in Premier sono al contempo conseguenza e causa del fenomeno della lievitazione dei cartellini. Un paio d’anni fa il Cies (International Centre for Sports Studies) aveva pubblicato un dossier in cui emergeva che, a parità di condizioni, il prezzo dei calciatori è aumentato del 116% in un decennio. Oggi per meno di 20 milioni non prendi nemmeno un terzino. Per un attaccante devi rovinarti. Non parliamo del made in Italy: gli azzurri forti (o presunti tali) sono pochi, e chi ce li ha se li fa pagare caro (vedi il 18enne Leoni, per 35 milioni al Liverpool dopo poche presenze in A).
Alla base del fenomeno ci sono fattori molteplici. In primis, appunto, le grandi disponibilità degli inglesi, che hanno drogato il mercato e generato aspettative di offerte sempre maggiori nei club di tutta Europa. Di recente si è aggiunta la nuova frontiera araba, quest’estate i sauditi hanno sborsato mezzo miliardo. Mettiamoci anche la rinascita di alcuni mercati periferici (Turchia, Brasile), il fatto che tante squadre si sono specializzate nelle plusvalenze, e gli interessi spregiudicati dei procuratori. Tutto contribuisce a questa spirale vorticosa. “È cambiato il mondo, siamo e saremo sempre più in difficoltà”, spiega Giovanni Carnevali, amministratore delegato del Sassuolo, uno dei dirigenti italiani più navigati. “Non resta che avere un buono scouting, lavorare con le idee, ma a volte temo che non siano più sufficienti nemmeno quelle”.
Il risultato per il calcio italiano è devastante. I nostri club perdono competitività e potere d’acquisto: non solo nei confronti dei campionati top ma anche di quelli minori. Ormai facciamo fatica a comprare in Portogallo, Olanda, Belgio; il budget di un mercato basta sì e no per un paio di giocatori. In questo contesto vanno inquadrate le mosse delle big. Il Milan ha cambiato mezza squadra, sacrificando Reijnders (il saldo positivo di un’ottantina di milioni serviva a compensare la mancata qualificazione in Champions). L’Inter che per la prima volta da anni aveva un po’ di soldi da spendere ha puntato su Bonny, Luis Enrique, Sucic, Diouf: giovani di prospettiva e poco costosi, cioè tutti potenziali plusvalenze, come prescrive la ricetta di Oaktree. La Juventus ha costruito un grande attacco, la Roma ha cercato di favorire la rivoluzione gasperiniana, districandosi però tra i paletti del Fairplay finanziario. Tutti, comunque, come evidenzia un’analisi di Calcio e Finanza, col mercato hanno ottenuto un effetto positivo sul bilancio, a conferma che si guarda prima al portafoglio, poi al campo. Nessuno escluso, nemmeno chi ha investito tanto come il Napoli, 150 milioni di acquisti (quasi 200 col riscatto di Hojlund), ma grazie al tesoretto delle cessioni di Osimhen e Kvarashktelia, e un centinaio speso per il trio Milinkovic-Savic, Beukema e Lorenzo Lucca, tre riserve prese da provinciali di Serie A.
Ecco, forse proprio il nuovo attaccante azzurro è il simbolo del calciomercato ai tempi dell’inflazione. Una decina d’anni fa, per 37 milioni il Napoli dal Real acquistava Higuain, uno dei centravanti più forti al mondo. Oggi, con gli stessi soldi, al massimo prendi la punta dell’Udinese. Il prezzo di un grande attaccante è raddoppiato, ma il fatturato delle squadre no. Così il calcio italiano si riscopre ancora più povero e impotente.