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 2025  settembre 08 Lunedì calendario

Intervista a Federico Grom

«Il gelato non è mai stata la mia passione. Datemi una Fiat 124 Sport Coupé del 1973, il mio anno di nascita, e fatemi girare il mondo, lì sì che divento un bambino. L’anno scorso l’ho fatto: una gara di auto storiche, da Pechino a Parigi, in tutto 108 partecipanti. Una corsa competitiva senza assistenza, due mesi in cui devi cavartela da solo superando il deserto. E va tutto male, per forza. È stata l’esperienza più bella della mia vita, mi ha cambiato. Prima vivevo la competizione con ansia. Ora il mio motto è “will fix it”, lo risolveremo. Ma domani. Una filosofia. Volevo anche tatuarmelo, poi Trump me lo ha rubato». 
Il suo nome fa subito rima con «il gelato come una volta». Eppure Federico Grom, 52 anni, non ama raccontarsi solamente per quell’esperienza. Vincente, per carità, ma l’imprenditore torinese ha mille sfaccettature e non si è mai fermato. Neppure dopo aver ceduto a cifre milionarie (a Unilever nel 2015) il celebre brand, fondato nel 2003 insieme all’amico di sempre Guido Martinetti ed esportato in 15 Paesi. Il prologo di molti altri progetti di successo: nel mondo del vino e dell’ospitalità con l’azienda Mura Mura e Le Marne Relais a Montegrosso d’Asti, dove si trova pure il ristorante in vigna Radici; nuovamente in quello del gelato con Lec, la linea per sportivi creata insieme al pilota di Formula 1 Charles Leclerc. Non solo. È anche socio e senior advisor di Corsi.it, una delle realtà leader dell’edutech, e nel tempo libero presiede il Centro Servizi di Courmayeur. Un personaggio che si annoia facilmente e sempre alla ricerca di nuovi stimoli.
In questa sfilza di esperienze positive, non ha un rimpianto?
«Nessuno. Sono stato così fortunato che ripeterei anche gli errori. Mi hanno condotto dove sono. Quando hai un’azienda l’aspetto più importante è scegliere le persone. E in questo caso ho fatto degli errori clamorosi, pagati a caro prezzo. Mi sono fidato e mi hanno tradito. L’esperienza ci forma. Meglio un errore ben fatto che un successo mediocre. Quando ero alla guida di Grom, alla festa di fine anno regalavamo un weekend all’estero al dipendente che aveva fatto l’errore più grossolano. Un modo per crescere e aumentare lo spirito di squadra, con ironia».
Tra le sue sfide attuali, qual è la più grande?
«Fare il padre, sento una grande responsabilità. Mi ritrovo spesso a confrontarmi con mio padre. Ne ho avuto uno severo, ma esemplare. E oggi che sono dall’altra parte capisco molte cose. Devi crescere un adulto e non esiste un manuale o statistica da seguire».
Come valuta l’evoluzione di Torino negli ultimi anni?
«Sono stato almeno 50 volte a New York e Tokyo, ho preso anche 100 voli internazionali all’anno. Ma sceglierei sempre Torino per vivere. Qui c’è un’alta qualità della vita, a prezzi giusti, e siamo circondati da una bellezza architettonica invidiabile. Ho visto la città crescere in modo esponenziale. Trent’anni fa eravamo più indietro: oggi abbiamo tantissimi eventi e ristoranti. La Torino industriale si deve un po’ trasformare, ma abbiamo le potenzialità. Nel turismo siamo un po’ pigri. Se la Reggia di Venaria fosse negli States quintuplicherebbe i suoi visitatori».
A distanza di tempo, non le dispiace un po’ di aver venduto Grom?
«No, sono razionale e poco emotivo. Non vivo momenti di grande felicità o tristezza e non agisco d’impulso. Il 2015 è stato un anno perfetto, va bene così. Un mese dopo la cessione mi sono sposato e trenta giorni più tardi è nato mio figlio».
Chi è Federico nella vita privata?
«Ho solo un bambino, ne vorrei altri, in stile squadra di pallavolo. Però poi non siamo noi maschi a farli. Il piccolo si chiama Romeo, ha 9 anni. Mia moglie invece si chiama Chiara. Ho avuto il colpo di fulmine in un circuito di moto a Misano. Ho visto questa coda bionda che usciva dal casco e mi sono subito innamorato. Ormai 23 anni fa».
Prima accennava a suo padre. Ha un bel rapporto con i suoi genitori? Ha fratelli?
«Uno e gli voglio molto bene. Purtroppo mio padre è mancato d’infarto all’improvviso, dieci anni fa. Ci penso sempre. È stato il dolore più grande della mia vita. I primi giorni ho pianto tutte le lacrime del mondo. Avere il suo corpo in casa mi è sembrato quasi un rito barbaro. Ma ha vissuto bene fino all’ultimo giorno. Si è goduto la vita, buon per lui. Speriamo che la natura rispetti sempre il suo corso».
E sua madre?
«Ne parlo meno solo perché è ancora con me. È stata altrettanto importante, ho il suo carattere».
Nella sua vita sembra che il cambiamento abbia un ruolo chiave. È così?
«Sì, lo cerco anche nella quotidianità. Non sono da comfort zone, mi entusiasma tutto ciò che non conosco. Con una buona dose di accettazione del rischio, forse superiore alla media. Sono sempre stato un po’ scapestrato».
Cosa pensa della classe dirigente imprenditoriale torinese? Non crede che manchino le personalità di spicco di un tempo?
«Sento spesso parlare della terza e quarta generazione. Per vincere devi anche mettere in conto di perdere. E non è facile rischiare su ciò che ha costruito la tua famiglia per generazioni. Per assurdo forse è più facile partire da zero. Io spero che mio nipote un giorno sia più bravo di me, ma potrà anche vendere il cocco in Australia se è ciò che lo rende felice».
Quale futuro vede per la città?
«Resto un inguaribile ottimista, i torinesi sono stacanovisti. E abbiamo un tessuto culturale importante, spesso poco riconosciuto. A partire dall’università. Certo, per trattenere i giovani non basta il turismo. Ma a livello industriale Ferrero sta facendo meraviglie, e se l’auto si sta riassestando altri settori sono in crescita. Le difficoltà oggi sono generali, non guardiamo solo al nostro orto».
Ama gli animali?
«Alla follia. Purtroppo tocca un’altra ferita aperta. Per 13 anni ho avuto Zohan, un jack russell. Ma un giorno, in montagna, un branco di lupi me lo ha portato via. È stato uno choc per tutta la famiglia. Non so se ne avrò mai altri».
Cosa la unisce a Guido Martinetti, il suo compagno d’avventura professionale?
«Condividiamo i valori e l’educazione, sembra che abbiamo avuto gli stessi genitori.
Dallo spirito di combattimento alla determinazione, fino all’amore smisurato per quello che facciamo. Siamo entrambi ossessivi e abbiamo una fiducia cieca verso l’altro. È più di un fratello, una forma di amore. Spesso nei nostri viaggi ci hanno scambiato per una coppia, anche perché condividevamo la stanza. E noi non lo abbiamo mai negato. Una volta a New York si svegliò alle 5 di notte per leggere i giornali, qualcosa lo colpì e corse nel mio letto a svegliarmi. Questo è ciò che siamo».