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 2025  settembre 08 Lunedì calendario

Intervista a Pino Donaggio

E quante volte è stata incisa la sua canzone più famosa?
«Trecentotrenta, credo». Macché: Pino Donaggio, nell’intervista pubblica a Casa Corriere al Festival del cinema di Venezia, si sbagliava. Troppo modesto. Le cover di You Don’t Have to Say You Love Me, la versione inglese di Io che non vivo (senza te) sono 462. Primo posto a livello planetario tra gli autori italiani, dice il database di «secondhandsongs» davanti a Quando, quando, quando di Tony Renis e Nel blu, dipinto di blu di Domenico Modugno.
Stupito?
«Non più di tanto. Dopo la prima di Dusty Springfield l’hanno rifatta tantissimi in tante lingue diverse. Da Elvis Presley (mi fece chiamare a casa per dirmelo) a Tom Jones, da Connie Francis a Cher, da Claudio Baglioni a Gianna Nannini, a Il Volo...».
Ottanta milioni di dischi.
«Non so. Ho smesso di contarli...».
Non male per un ragazzo nato sull’isoletta di Burano.
«Mio nonno materno era pescatore, passava a prendermi che era ancora notte. Albe indimenticabili. Sull’acqua. A tirar fuori con le mani pesci dalle reti. Fatico a scrivere, se non ho intorno l’acqua».
Metà della famiglia però...
«Musicisti. Mio nonno paterno cambiava i rulli delle canzoni sui pianoforti d’una volta, antenati dei juke-box: “Donaggio e figli”. Mio papà aveva un’orchestrina. Ma mia mamma mi voleva violinista. E mi mandò a lezione di violino. Cominciai così, e come voce bianca nel coro della Fenice. Ricordo una Carmen, un Mefistofele... Ogni tanto papà mi aggregava al suo gruppo. Ho una foto in cui suono la batteria a un Capodanno a Cortina».

E sognava di diventare primo violino?
«Quello era il mio sogno. Avevo del talento. Giovanissimo entrai fra i solisti veneti del maestro Claudio Scimone. Poi a Milano sarei dovuto andare coi solisti di Claudio Abbado. Avevo, a Venezia, un grande maestro. Solo che...».
Finì a Sanremo.

«Avevo scritto delle canzoni e le avevo portate alle Edizioni Curci. Una, Ho paura, l’aveva subito incisa Mina. Così gliene avevo data un’altra, Come sinfonia. Solo che in quel 1961 a Sanremo Mina ne aveva già due, di canzoni. Fu lei a volere che la cantassi io. In coppia con Teddy Reno».
Com’era, allora, Mina?
«Molto simpatica, estroversa, bravissima. Un giorno le feci sentire, sempre per Sanremo, Una casa in cima al mondo. Una volta. Una sola. E la rifece subito senza sbagliare una parola, una nota, una sfumatura... Inarrivabile».
Fatto sta che anche lei, al debutto, con un ciuffo moderato e l’occhio suadente, sfondò...
«In realtà arrivai solo quinto. Ma le vendite schizzarono subito su. La gente che la cantava per strada. Una cosa travolgente».
E così si perse il maestro di violino...
«Gli avevo giurato che avrei perso solo una settimana di lezioni. Tornai dopo un mese e non mi volle più vedere. Si sentì tradito. Ogni tentativo di far pace fu inutile. Mi aveva preso ragazzino, non mi parlò per vent’anni...».
In compenso a Burano diventò più famoso dei merletti.
«Non esageriamo. I merletti di Burano erano famosi da secoli. È vero però che l’osteria “Da Romano”, dove andavano a mangiare anche Charlie Chaplin ed Ernest Hemingway, chiuse apposta per far festa con tutti noi buranelli. Una giornata difficile da dimenticare».
Mai quanto il trionfo del ‘65 con «Io che non vivo».
«Quell’anno vinse Bobby Solo con Se piangi, se ridi... Ma la mia canzone esplose. Fu lì la svolta. Insieme con la scelta di Dusty Springfield di inciderla in inglese. Il primo granello della valanga».
Ricorda come le capitò di scriverla?
«Mi avevano appena consegnato un pianoforte, stavo provandolo e il tema venne fuori così... Era carino. Pensai: se domani me lo ricordo ci faccio una canzone. Rischiai».
Italo Calvino girava sempre con un taccuino per ricordarsi le idee: diceva che se passano, addio.
«Vero. Rischiai. Adesso coi telefonini è facile: registri il motivo e sei a posto. Per anni, se mi succedeva in aereo chiedevo alle hostess carta e penna per annotarmi il pentagramma. Fatto sta che quella volta, per fortuna, mi tornò tutto in mente di getto».
«Io che non vivo / più di un’ora senza te / come posso stare / una vita senza te»: a chi era dedicata?
«A Rita. La ragazza di cui ero innamorato».
Che fine ha fatto?
«Visto il risultato l’ho sposata (ride). Ormai sessant’anni fa. Abbiamo due figli. E siamo ancora insieme».

Cosa rara nel mondo dello show, ancor più a Hollywood dove sfondò con le colonne sonore.
«Mah, Hollywood... Non è che ci sia stato tanto...».
Come arrivò, questa seconda vita?
«Avevo fatto dieci festival di Sanremo come cantante, quattordici come autore. Speravo di vincere, una volta o l’altra. Niente. Per carità, facevo una serata dietro l’altra. Ma era una vita da matti... Due o tre volte, tornando a ore impossibili, rischiai la pelle. Mi pesava. Una notte, tornando all’alba da una serata, in vaporetto, mi notò Ugo Mariotti, un giovane produttore che era lì per le riprese di un horror di Nicolas Roeg, Don’t look now, a Venezia. Disse che nel “caligo”, la nebbia veneziana, gli sembrai un’apparizione inviata dall’Aldilà».
Addirittura...
«Mi chiese se ero in grado di fargli tre o quattro pezzi musicali per quel film. Con Julie Christie e Donald Sutherland... Ci provai. Andò bene. Era il 1973».
E lì cominciò a far concorrenza a Ennio Morricone.
«Non esageriamo. Inarrivabile. Però di colonne sonore ne ho scritte davvero tante».
Più o meno?
«Duecentotrenta. Metà e metà, grosso modo, per film o serie televisive italiani
(da Non ci resta che piangere di Roberto Benigni e Massimo Troisi a Inferno berlinese di Liliana Cavani, da Trauma di Dario Argento a Don Matteo) e le pellicole straniere, inglesi, tedesche, americane…».
Anche lì, grandi autori: da Joe Dante a Brian De Palma.
«Ne ho composte otto di colonne sonore, per lui. La prima volta mi cercò per Carrie. Lo sguardo di Satana. Voleva Bernard Herrmann, il musicista di Hitchcock. Un gigante. Ma aveva fatto un infarto. Gli parlarono di me, gli fecero sentire qualcosa che avevo fatto. Ci siamo capiti subito, grazie al montatore che parlava italiano».
L’avrà imparato, con gli anni, l’inglese...
«Mai. O meglio, quando cominciai a cavarmela decisi che preferivo vivere in laguna. Rispetto a Hermann, comunque, cambiai qualcosa».

Cioè?
«Lui era abituato con la musica che man mano si faceva più incalzante fino alla scena clou. Io preferivo atmosfere serene fino alla “botta” emotiva, sempre a sorpresa».
Funzionava?
«Vedemmo Vestito per uccidere, con Angie Dickinson, in una saletta di proiezione col grande George Lucas. E io non guardavo il film, guardavo Lucas. C’era questa musica piana, serena, tranquilla. Ed ecco apparire la mano dello strangolatore. Vidi Lucas sobbalzare sulla sedia. Pensai: se sobbalza lui funziona. Guardai Brian. Funzionava».
C’è una foto con lei, De Palma e Steven Spielberg.
«Era il compleanno di Brian, nella sua villa. C’erano tutti, quella sera. Persone straordinarie. Ma io, come sempre, presi un taxi e prima possibile tornai in albergo».
Si annoiava?
«No. Diciamo che c’è anche un risvolto che non mi piaceva, a Hollywood. Troppo alcool. Troppa droga».
E lei?

«Non fumo. E non mi sono mai fatto una canna. Mi dicevano: “Ma come, non hai bisogno per creare”? No, grazie. “Non occorre che fumi, ci sono anche caramelle speciali”. No, grazie. Niente caramelle».

Mai vissuto lì?
«In America andavo solo a prender nota dei tempi di film. Mi davano una copia del “girato” per studiare la musica e tornavo nel mio studio sul Canal Grande. Guardavo l’acqua e componevo. I registi si fidavano. Anche vederli all’opera non era cosa per me. Una volta con Rita siamo andati a veder girare una scena di Raising Cain, con un ascensore che saliva e una mamma con la bambina che rischiava di precipitare nel vuoto. Brian la fece ripetere trentacinque volte. Dico: trentacinque!»
Meglio Venezia...
«Sicuro. Mai avuto grilli per la testa da divo».
Quel suo maestro di violino seppe mai che la sua musica aveva venduto 80 milioni di copie e aveva avuto centinaia di cover?
«Non so, possibile. Per lui però, che viveva per la classica, erano solo canzonette».