Corriere della Sera, 8 settembre 2025
Intervista a Oscar Farinetti
Oscar Farinetti domani torna in libreria con La regola del silenzio, pubblicato da Bompiani. È il suo primo romanzo. Wikipedia ormai lo qualifica come «scrittore, dirigente d’azienda e imprenditore», in quest’ordine.
Mica si è montato la testa?
«Ma io è tutta la vita che me la monto! Lo vedo sul piano dell’ambizione, del sentirsi un po’ meglio di ciò che si è, così da sognare di poter combinare qualcosa e farcela».
Sogna lo Strega?
«No, quello mai. Però mi piacerebbe allargare lo zoccolo dei miei lettori».
E la classifica?
«Sarebbe un onore».
Nel romanzo, il protagonista Ugo Giramondi è un tipo che pensa molto e parla poco, e per la sua scarsa loquacità viene considerato un beota (un giorno ci andrà per davvero, in Beozia, alla ricerca delle sue radici). Il nonno Giandomenico aveva la ferramenta più fornita del paese, mentre il padre Pierferdinando è riuscito a fare il salto, creando una catena di grandi negozi per la casa. Ugo, invece, lo troviamo nel carcere di San Vittore, accusato di un duplice omicidio che non ricorda di aver commesso.
È mai stato in un carcere?
«Altroché! Quando sono partito con Eataly, il caffè lo compravo dai campesinos, in Guatemala, e poi lo facevo tostare nel carcere di Torino, dove un mio amico aveva creato una torrefazione. Ci sono andato più di una volta e ricordo una lunga chiacchierata con il direttore che confessò di dubitare sulla possibilità di successo della prima funzione del carcere: rieducare».
Il suo Ugo è molto seguito.
«Gode di una condizione di privilegio. È ricco, ha comprato molti libri per l’istituto dove sconta la pena. Sono consapevole di aver raccontato una situazione piuttosto rara».
A Eataly lavorano anche i detenuti?
«Ai miei tempi sì. A un certo punto avevo assunto 60 rifugiati politici e 283 extracomunitari. Una volta feci stampare la Costituzione italiana in tutte le lingue dei dipendenti, e la feci distribuire pure agli studenti di Torino. Ma anche oggi Eataly è attenta alle categorie in difficoltà».
E in Beozia c’è mai andato?
«Sì, quando mi hanno invitato a fare una conferenza ad Atene. Avevo chiesto di organizzare un’escursione nella vecchia città di Tebe e durante il viaggio a uno del gruppo successe lo stesso imprevisto che capiterà ad Augusta, un personaggio del romanzo».
Ugo associa le persone ai profumi. Di cosa profuma sua moglie Graziella?
«Mia moglie profuma di buono, sa di fiore. Non ha un pollice verde, il suo è smeraldo: conosce i nomi di tutti i fiori, anche in latino. Il terrazzo di casa nostra a Novello è praticamente una giungla».
Ha già letto il suo libro?
«Ne ha lette 150 pagine e ha detto: pazzesco, non sembra neanche che lo hai scritto te».
Beh, non è proprio un complimento. Del resto, ha ancora qualcosina da farsi perdonare: aveva lavorato pure il giorno del matrimonio!
«Ma era un sabato e il negozio di elettrodomestici di mio padre era aperto! Io sono stato lì fino alle 11 e poi sono uscito per andare in Comune, dove ci siamo sposati: abbiamo mangiato un panino e sono tornato in reparto».
Nessun pranzo di nozze?
«Abbiamo fatto la cena, all’osteria “I topi grigi” di Alba, dove si mangiava con 2.500 lire. L’oste mi preparò un banchetto nuziale da 15 portate a 8.500 lire a persona, roba che se ne spendevano ventimila a testa. E siccome io e Graziella eravamo poveri in canna, il conto lo pagò il fratello».
Da quel negozio nacque Unieuro, come succede al padre di Ugo, che fonda «Casa fai da te» dalla ferramenta del nonno. Le è mai venuta voglia di ricomprarlo?
«No, sono contrario alle minestre riscaldate. Anche se me l’avevano offerto. Ma quando io vendo un’azienda è per cambiare mestiere. Ora spero che il mio nuovo sia quello di scrittore, e poi vediamo, magari dopo inciderò un Lp. Del resto, sono uno che si monta la testa!».
Nella sua vita chi è l’Ermanno del libro, l’uomo di fiducia che risolve ogni guaio?
«Oggi sono tre: Sara e Fulvio, che si prendono cura delle incombenze di famiglia, ed Eugenio, che interviene quando qualcosa si rompe».
Chi le regalò il primo libro?
«Non ricordo. Però ricordo benissimo il primo libro che mi ha fatto riflettere, me lo diede mio padre: Se questo è un uomo, di Primo Levi».
Il suo libro preferito? Però ora non mi costringa a leggere il racconto di Michele Mari come fa Ugo con chiunque gli rivolga la stessa domanda.
«Furore di Steinbeck. Non l’ho neanche citato nel romanzo, dove c’è un elenco di capolavori. È un libro pazzesco, modernissimo: mette insieme due temi fondamentali come l’emigrazione e il rapporto con l’innovazione».
Quanto a chiacchiere, Ugo Giramondi è il suo contrario.
«Prima parlavo molto di più! Non ho mai saputo gestire la solitudine, fino a poco tempo fa non riuscivo neanche a mangiare da solo al ristorante. Ho cominciato a parlare meno quando mi sono messo a scrivere sul serio: hai bisogno del silenzio».
Ormai è allenato.
«Se è per questo nel cassetto ho altri trenta libri, ma non così belli da meritare la pubblicazione. Ho scoperto che scrivere è un mestiere, come quello dell’imprenditore. L’errore di alcuni intellettuali è non rendersi conto che spesso dietro un grande artigiano c’è un grande intellettuale, non inferiore a loro, perché pure il falegname, l’idraulico, l’imprenditore devono studiare prima di fare».
Non avrà il complesso di inferiorità rispetto agli Scrittori con la esse maiuscola?
«Ma no, quelli li considero maestri e alcuni sono miei amici. Io non scrivevo bene e poi pian pianino sono migliorato. Ci ho messo quattro anni per questo romanzo e nel frattempo ho pubblicato altri tre libri. Volevo sentirmi pronto».
Ha una piscina dove si tuffa dopo la sauna, come Ugo?
«Sì, e pure un orologio fermo alle otto meno un quarto. Nella mia classifica del piacere, al primo posto c’è la sauna caldissima seguita da un bagno fresco. Al secondo posto i cotton fioc. Al terzo le Pringles alla paprika».
E il sesso?
«A una certa età lo dimentichi, non è più così interessante. Per me non è mai stato una parte predominante, come per molti autori».
Nel romanzo ritroviamo Tonino Guerra, sotto mentite spoglie.
«Lui mi ha insegnato ad aspettare, una cosa che non ero capace per niente di fare».
Andò al suo funerale?
«Fu una cerimonia civile e io ero in America. Ma la settimana dopo andai a trovare la moglie Lora, e nello studio di Tonino, che era dentro un’urna, parlammo di lui guardando le montagne».
Ha paura di morire?
«Zero, ma alla morte bisogna pensarci. Se io morissi domani andrebbe comunque bene, perché sono stato fin troppo fortunato con la salute, la famiglia, tutto. Se mi volto indietro vedo tante persone nettamente migliori di me che non ce l’hanno fatta».
Il quotidiano «Libero» ha scritto che ha perso il tocco.
«È una vita che parlano male di me. All’inizio me la prendevo, ora no. Comunque dipende da cosa si intende per tocco: azzardo che non diamo la stessa interpretazione».
Però è vero, per esempio, che Grand Tour Italia ha chiuso il 2024 perdendo quattro milioni e mezzo di euro.
«Chi lo ha scritto si è dimenticato di dire che siamo stati aperti 4 mesi su 12. E che negli altri otto ho comunque pagato le bollette e non ho messo nessuno in cassa integrazione. Anzi, quando alcuni partner hanno dovuto farlo, io ho aggiunto la differenza sugli stipendi».
Nel 2026 pareggerà i conti?
«Forse non ancora, ma non perderò più così tanto».
Eataly ha chiuso a Verona e in Brasile. Dove le è spiaciuto di più?
«Quando chiudi è sempre brutto. Però forse più a Verona. Ma ormai devi aprire solo in centro, in aeroporto e nei centri commerciali».
Un caffè da Eataly costerà 2,50 euro?
«Ma no! Io avevo premesso che se si tenesse conto dei costi, vale a dire macchina, macina e lavoro del barista, dovrebbe costare molto di più. In Italia il prezzo resterà calmierato, ma in America un caffè al bar costa 4 dollari».
Perché state investendo così tanto sul caffè, adesso?
«Non sono più io a prendere decisioni, ma ho aderito volentieri all’aumento di capitale perché abbiamo già due Eataly Caffè, a New York, che funzionano molto bene. Ora contiamo di aprirne altri».
Chiudiamo con il romanzo. È emozionato per questo «debutto»?
«Guai se non lo fossi. Prima delle aperture dei negozi non dormivo una settimana di fila».
Ma alla fine, la regola del silenzio qual è?
«Il silenzio è una scusa per parlare della mia vera ossessione, il tempo. E comunque ho capito che con una persona ci stai bene quando puoi anche restare in silenzio».